8 APRILE 2012
Hebron, mattina ore 10, città vecchia. Potrei sentirmi Charlton Heston se non fosse che lui era membro del NRA. Vicoli deserti sotto il sole, case inabitate a uno o due piani, negozi sbarrati, un sole che comincia a scaldare come in estate. Vedo solo alcuni cani bianchi che vagano silenziosi e innocui. Questo è l’ombelico, delimitato da checkpoint più o meno permeabili, intorno a cui gira tutta la vita della città.
Eppure basterebbe muoversi di poche decine di metri per scoprire che non sono solo. Alle spalle ad esempio vedo i cimiteri arabi sulle pendici di Tel Rumeida, la collina centrale su cui sorge una delle più grandi colonie che qua hanno la forma di grossi palazzi. Poco sopra un mercatino di roba usata e di verdure. Più a destra scheletri di capannoni dove una volta stavano le officine meccaniche. In cima la casa del centro dei giovani contro le colonie, con tenacia preservata come uno spazio franco dove si organizzano corsi di legge, ebraico, inglese e si impara a usare la telecamera come mezzo di difesa attiva dalle violenze. Da qui il tramonto rivela ancora l’antica bellezza di Hebron.
Dalla parte opposta, la moschea di Abramo, divisa in due per creare una sinagoga dopo che un colono nel 1994 ha ucciso trenta persone durante la preghiera alle 5 del mattino.
Entrando nella moschea la mattina, il sole penetra fra le barriere di legno a soffietto poste vicino alle tombe di Abramo e Sara, accessibili anche dalla sinagoga. Fra le fessure si possono notare i movimenti delle guardie israeliane nella sinagoga. Ho l’impressione che possano entrare con una semplice spinta quando lo volessero. L’uomo che pulisce i tappeti mi chiede l’elemosina. Due tombe soltanto, Isacco e Rebecca, rimangono interamente nella area della moschea. Mentre ero lì assorto nel silenzio, sono entrate all’improvviso bambine palestinesi allegre in gita scolastica con i cellulari in mano a fare foto.
Sempre qua vicinissimo all’ombelico, c’è l’ultima casa occupata dai coloni alcuni giorni fa. Pare che spesso si impossessino delle case deserte del centro senza diritto alcuno. In questo caso mi dice Leila, come in altri, invece pare che i proprietari abbiano venduto almeno una parte dell’edificio . I coloni poi si prendono anche il resto. Con una volontaria dei Christian Peacemakers Team (CPT) ho contato più di sessanta soldati (anche sui tetti) che li stavano facendo evacuare, mentre all’esterno bambini palestinesi e ebrei si confrontavano minacciosamente.
L’evacuazione ha fatto temere una reazione violenta dei coloni, per questo hanno chiuso i pochi negozi palestinesi vicino l’entrata della moschea mi dicono tre osservatori del FITH, un norvegese e due turchi. Ed infatti un pomeriggio si è verificata proprio sul Tel Rumeida. Hanno lanciato sassi e bruciato una tenda di attivisti del centro giovani e dell’ISM che qui vicino ha una base. Di sera accompagnando il coordinatore del centro giovani anche io sono stato oggetto di scambi verbali con un colono perché stavo appoggiato ad una loro auto. Eravamo fermi ad un checkpoint dove un attivista era stato fermato per un’ora da un soldato ‘zelante’. Ironia, l’auto era un Doblò.
Ci sono poi pure molte scuole arabe all’interno per ragazzi o ragazze, mai miste. Gli alunni devono passare i checkpoint per entrare e a volte subire maltrattamenti anche da parte dei soldati, come mi dice Bob del CPT durante un servizio di osservazione. Due ad esempio si trovano nei pressi dell’ultima casa occupata, un’altra proprio sulla linea che dalla sinagoga conduce al primo insediamento esterno di Kiryat Arba. Un bambino aldilà della rete mi invita ad avvicinarmi con minaccia, altri ci prendono in giro all’uscita della scuola. Più sotto si trovano le case che i palestinesi stanno ristrutturando per riabitarle di nuovo e toglierle alla prevedibile invasione dei coloni.
Ripensandoci mi sento uno che è entrato nella Zona senza uno Stalker, la guida. La Zona del film di Tarkowski, l’immaginario posto dove sono entrati gli extraterrestri per fare un picnic lasciando trappole invisibili per gli umani. La linea retta fra due punti è la più breve ma non la più sicura e non sai in che direzione andare anche se le trappole sono spesso ben visibili. Una sensazione simile come a Mea Shearim,
il quartiere ultra ortodosso di Gerusalemme, che ho visitato da solo nel giorno di Pesach e dove, oppresso dalla sensazione di essere un pesce fuor d’acqua e dalla paura di dire un semplice Shalom, mi sono rifugiato dentro una inaspettata chiesa etiope.
Tutt’intorno alla Zona, apparentemente la vita continua normale. Taxi numerosi, traffico elevato mentre a mezzogiorno parto per tornare a Betlemme. Negozi pieni, molti anche moderni, con la piazza più importante bloccata in parte da lavori di costruzione e ristrutturazione. I bancomat non accettano la mia carta e all’ufficio cambio trovo un ragazzo che scopro aver studiato in Italia per alcuni mesi.
Ma tornando indietro nel vecchio suk prima del checkpoint della moschea, dove sta il negozio della cooperativa delle donne della coraggiosa e consapevole Leila da cui ho dormito la notte che sono rimasto qua, l’oppressione ritorna inesorabile. Soprattutto dopo che il giorno prima dal tetto della casa dei CPT lì vicino, Bob mi ha mostrato la Zona dall’alto con il suo sguardo da Stalker.
I am the ghost writer of a ghost city.
(fd)
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