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Giardini, non Muri di Daphna Golan*

Adesso che la prima pioggia autunnale è caduta, è diventato ancora più chiaro che la soluzione del conflitto Israelo-Palestinese è da cercare nell’orto di Michelle Obana, e non nel pacchetto di aiuti militari che suo marito ha offerto in cambio del proseguimento della moratoria sugli insediamenti.

Iniziamo dunque proprio dalla moratoria. Poco dopo la sua elezione, ho consigliato a Barack Obama di abbonarsi ai giornali locali di Gerusalemme, così che potesse essere costantemente sorpreso dall’estensione delle costruzioni nelle colonie. Questa settimana la rivista Kol Ha’ir Plus offriva in vendita dozzine di appartamenti di lusso nelle colonie intorno a Gerusalemme. Un’intera pagina prometteva “un respiro profondo sulla cima delle colline di Gerusalemme” o “una vista sulla pittoresca vallata con un’antica piantagione di ulivi”; un’altra pagina proponeva lussuosi attici con doppio posto auto coperto ad Har Homa, e mostrava un ambizioso progetto a Pisgat Ze’ev. Un’altra ancora era dedicata al nuovo quartiere realizzato nella colonia di Har Gilo. Può anche darsi che Israele abbia fermato le costruzioni in alcune, isolata colonie; ma di certo la moratoria non è stata applicata a Gerusalemme e nei suoi dintorni. Per 43 anni Israele ha espropriato terra alla popolazione palestinese, costruendo soltanto per gli ebrei. Potranno forse fare qualche significativa differenza 60 giorni di congelamento?

Se solo Michelle Obama potesse semplicemente dare un’occhiata ai quotidiani di Gerusalemme, si renderebbe conto che il suo uomo forse ha compreso quale sia uno dei maggiori problemi, ma che la sua risoluzione non passa certo attraverso una moratoria o un pacchetto di aiuti militari, comprensivi di una maggiore dotazione di armamenti.

Per dirla con il “pensiero verde”, tu congeli degli ortaggi quando non puoi mangiarne di freschi: inviare armi ad un paese che, con sempre maggiore frequenza, utilizza i suoi armamenti semplicemente per acquistarne di più sofisticati per guerre che non sono necessarie, non è né “verde” né saggio.

La passione di Michelle Obama per i prodotti locali e le coltivazioni biologiche, e il suo “pensiero verde”, potrebbero aiutarci a costruire un futuro di pace. Seguendo un modo di pensare ecologico e sostenibile, con le prime piogge pianti i semi invernali, e metti da parte l’acqua per le calde e secche giornate d’estate. Adesso, in autunno, noi speriamo solo che la prossima estate Nadia – che vive a Betlemme – possa usufruire di acqua corrente ogni giorno, e non solo una volta ogni tre settimane, come è accaduto quest’anno.

I dialoghi di pace, così come la coltivazione della terra, parlano del presente, del passato e del futuro di questa terra che dividiamo, della pioggia e del futuro dei nostri figli. Le generazioni a venire hanno il diritto di continuare a mangiare verdure coltivate con amore e senza sostanze tossiche, così come i nostri confini dovrebbero essere marcati da giardini verdi, non da muri, barriere e soldati.

Mezzo milione di israeliani oggi vive nelle colonie, e la loro costruzione continua. Forse, invece che al congelamento delle costruzioni dovremmo pensare a come congelare la costruzione di tutti i pericoli ecologici. I liquami provenienti dalla colonia di Beitar Illit per anni hanno contaminato i campi biologici dei coltivatori di Wadi Fuqin, uno dei borghi agricoli più belli del mondo. Il muro di separazione minaccia di mangiarsi la poca terra che ha lasciato al villaggio. La costruzione di Beitar Illit ha già prosciugato tre delle dodici sorgenti naturali che irrigavano i piccoli campi.

Che succederebbe se tutta la distruzione del paesaggio venisse congelata? La costruzione del muro di separazione nel villaggio di Walaja, appena sotto il nuovo quartiere nella colonia di Har Gilo, non si è fermata per un solo momento. Nonostante sia stata presentata una petizione (o forse proprio a causa di questo) all’Alta Corte di Giustizia contro il tracciato della barriera, gli enormi bulldozer non hanno smesso di lavorare giorno e notte. Stanno distruggendo quella poca terra lasciata per l’agricoltura a Walaja, per costruire un brutto muro di cemento decorato con piastrelle colorate, ma solo sul versante rivolto ai nuovi coloni di Har Gilo. La costruzione del muro deve essere congelata immediatamente. La demolizione di case e l’espulsione dei palestinesi dalle loro case a Sheikh Jarrah e negli altri quartieri di Gerusalemme deve fermarsi. La fornitura di armi per mantenere costante l’occupazione deve fermarsi.

Negli Stati Uniti sono stati piantati centinaia di orti comuni sono seguendo l’esempio dato da Michelle Obama con il suo orto biologico. Anche qui il nostro futuro dipende da un modo di pensare collaborativo, che dia la possibilità di avere una vita dignitosa ed un’equa distribuzione delle acque e delle terre tra tutti coloro che piantano, e che sperano di raccogliere frutti. Attraverso un pensiero “verde” non si potrà continuare a costruire enormi appartamenti con due posti auto coperti per gli ebrei sulla terra dei palestinesi, a cui  è proibito persino coltivare la propria terra, piantare ortaggi, raccogliere olive.  Attraverso un modo di pensare ecologico non si potrà chiedere di inviare cibo a Gaza via mare. Che razza di futuro hanno queste persone? Non dovrebbero poter coltivare la terra alla luce del sole invece che contrabbandare cibo attraverso i tunnel? C’è una qualche valida ragione per non portare il dialogo di pace sulla questione di come tutti noi, ebrei ed arabi, possiamo condividere l’abbondanza di terre e di piogge in uguaglianza e dignità?

I dialoghi di pace si sono focalizzati su un temporaneo congelamento delle colonie nascondendo una grande questione nella quale le donne potrebbero essere coinvolte, così come dovrebbero esserlo i coloni e i membri di Hamas. Le nostre speranze non dipendono da un congelamento temporaneo, ma dalla coltivazione di un futuro verde, insieme.

La lotta tra due popoli che rivendicano questa terra come propria forse dovrebbe essere focalizzata sulla costruzione di altra terra. Ma invece di lasciarlo fare a uomini che credono nel potere, e nell’averne sempre di più, potremmo imparare da Michelle Obama a piantare insieme i semi della speranza.

*Daphna Golan, è insegnante presso la Hebrew University di Gerusalemme ed ha a lungo diretto l’organizzazione Bat Shalom.

(Traduzione a cura di Cecilia Dalla Negra e Luisa Morgantini, Associazione per la Pace)