Sono a casa,
Domenica ho cominciato a passare le consegne a quelli che rimangono dopo di me. Ci sono famiglie da andare a ritrovare, vedere se ci sono novità, intorno alla casa venduta e sotto Kiryat Arba.
Ma poi ci sono i problemi nuovi che stanno emergendo: i compagni che lascio avranno un bel po’ di grane. Una che vediamo di affrontare domenica riguarda una famiglia che ha avuto uno strano ordine militare: con allegata tanto di cartina che indica la loro casa, c’è un ordine in arabo ed in ebraico, pressoché incomprensibile. Nick è andato ad un incontro con anche un avvocato, ma l’unica cosa chiara, e preoccupante, è che vogliono maggiore controllo sull’area. L’area è quella della collina di Tel Rumeida, dove già la presenza dei coloni rende la vita difficilissima ai palestinesi. Comunque il nostro avvocato sta preparando uno opposizione, che deve essere presentata entro 5 giorni. E’ la prima volta che oltre alle mie frasi semplici, usiamo un i.phone con google traduttore. Sembra vero che gli ripete e scrive in arabo comprensibile le frasi un po’ più difficili. Io non ero ancora andato a trovare questa famiglia, è nel perimetro del mio divieto, ma ormai sta scadendo, poi è buio, e vado anche io. Non dico la felicità della famiglia a vedere anche me “Abu Sara!” Cinque bambini, che mi conoscono benissimo, anche la moglie mi saluta con affetto. Questo rapporto costruito con gli abitanti di Hebron rimarrà nei miei pensieri, faccio ancora fatica a rendermene conto bene. Ma quell’ordine militare riguarda anche altre quattro famiglie, di cui un’altra nella nostra zona. I nostri hanno già una torretta militare sul tetto! Come previsto un altro the, che segue i due precedenti! Pare che gli ordini militari siano incomprensibili, per rendere sempre più difficile la opposizione, e dare quindi mano libera all’esercito. I miei compagni vedranno gli sviluppi.
La mattina dopo, quando alle sei due si preparano per andare ad accompagnare a scuola i bambini, arriva anche una chiamata dai ragazzi di Operazione Colomba: è il primo giorno in cui il “telefono di Hebron” non è più in mano a me “Vari mezzi da demolizione e jeep militari si stanno preparando al bivio per Um al Kher”. Due partono per le colline a sud. Con me invece, e con più calma, vengono in tre. Andiamo a raccogliere le olive da Hani, fratello di Hashem, dove mi hanno arrestato. Per me sono passate due settimane, quindi vado, e proprio sotto una torretta e un soldato di guardia. Che non mi dice nulla. Credo che faccia parte dei nuovi, per cui non sa del mio divieto. La cosa che mi spaventa è stato invece un altro soldato, che mentre gli passavo davanti, mi chiama “Philippe, Philippe”. Io non capisco e continuo. Poi mi fermo: “chiami me?” “Si – mi dice – non sei Philippe, quello dell’intervista su Channel 2, avevi la faccia oscurata, ma sei tu”. Sul sito della TV c’è la trascrizione dell’intervista in ebraico, e io vengo indicato come un attivista a nome Philippe. Quindi mi riconoscono, non come quello dell’arresto e del divieto (non erano qui), ma come quello della TV. Mi viene un colpo. E se domani anche al Ben Gurion mi riconoscono così?
Intanto raccogliamo olive, e poto un po’, qui gli alberi sono stati curati ogni tanto, anche irrigati quest’estate, ma i tagli fatti sugli alberi sono proprio brutti. Però da quando io parlo di curare gli alberi, credo che in tanti si sono smossi e hanno pulito almeno le erbacce e hanno deciso di riprendere in mano queste terrazze, anziché sentirsi solo minacciati dai coloni. E’ come se la mia presenza avesse fatto scattare un movimento di dignità e di riappropriazione! Penso che è stato questo rapporto con la terra che ha fatto scattare il grande legame con la mia presenza ad Al Khalil. Il soldato ci guarda e non dice mai niente, due ragazzini dei coloni si affacciano a guardare, Hani li sgrida e anche il soldato conferma “via di lì”. Anche oggi gli alberi che riprendono forma e aria piacciono a tutti, ma non finiamo il raccolto, io devo ancora vedere della gente, e due dei miei compagni sono dovuti correre via a metà giornata: vicino a Kiriat Arba un attacco di coloni ha abbattuto una serie di alberi di ulivo, con l’uso di motoseghe, in un posto dove c’erano stati attacchi anche l’anno scorso. Come possono questi coloni dire che vogliono questa terra, quando distruggono quello che c’è di più caro e tradizionale, cioè appunto gli alberi di ulivo?
Tornano i due che erano andati a seguire i demolitori: oggi è stata la DCO (la polizia che deve curare i rapporti con i locali) a fermare una demolizione, probabilmente solo per rinviarla, ma intanto per oggi non è successo niente. Io vado a salutare alla casa di Youth Against Settlement, dove questa sera ci sono lezioni di spagnolo e di inglese. Trovo tutti e due i miei compagni di detenzione, e vari altri amici da salutare: di nuovo si parla di ulivi e di come curarli.
Martedì è il giorno della mia partenza, ma alle sei c’è di nuovo la chiamata per la demolizione. Sapremo poi che in due villaggi sono state rase al suolo completamente delle case quasi terminate, questa volta non tende o cisterne, ma vere case in cemento armato. Eppure non avevano avuto ordini di sospendere i lavori o cose simili. Non c’è niente da fare, dove ci sono insediamenti palestinesi, le forze di occupazione vogliono realizzare zone di esercitazione militare.
Ma io devo partire, anche se sono giorni di avvenimenti convulsi. Prendo i miei mezzi per Gerusalemme, anche se oggi viaggia pochissima gente, e faccio il viaggio fino a Betlemme da solo, con il mio autista di service disperato: si era mosso da Al Khalil veramente sperando di riempire il suo mezzo durante il tragitto, invece non c’è proprio nessuno che viaggi. A Gerusalemme è Neta che si presenta a salutarmi, almeno un’altra mezz’ora insieme prima che prenda un mezzo per l’aeroporto, ancora tante cose da dirsi. Per il Ben Gurion ho preparato una storia su una crisi religiosa dopo una vita da ateo, il bisogno di respirare a Gerusalemme dove a ogni angolo di strada si può cambiare da cristiano a musulmano a ebreo. L’idea è di mettermi a parlare sulle religioni in modo appassionato per confondere le idee agli inquisitori. Ma quando scendo dal Shuttle non c’è nessuno ad assalirmi come l’anno scorso. Tranquillamente mi metto nella coda (infinita) del settore dove c’è il checkin del volo per Milano. Le uniche domande le fa una ragazza durante la coda, ma non sta neanche ad ascoltare fino in fondo le mie risposte, evidentemente sono credibile e nessuno mi sta cercando o mi riconosce, tanti timori per niente. Certamente non sarà così facile il prossimo arrivo, ma per ora sono proprio tranquillo. Ed eccomi finalmente a casa, dove ha piovuto e tutto è molto più verde che in Palestina.
Abu Sara
Alcamo 7 novembre 2012
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