(da http://invisiblearabs.com/?p=2896)
Tahrir non è più sotto i riflettori, e giustamente – direi – visto quello que pasa in Libia. Questo non significa, però, che nulla accade, o che quello che accade sia solamente sotto il vessillo gattopardesco del “cambiare tutto perché nulla cambi”. Il regime trentennale di Mubarak (e, aggiungerei, quello quasi sessantennale della prima repubblica egiziana) sta facendo di tutto per rimanere a galla, in qualche modo, in qualche settore. Ma la pressione continua ad esserci, soprattutto da parte dei ragazzi di Tahrir, che sono alle prese con un pezzo di rivoluzione per nulla eroica e decisamente più difficile: la rivoluzione dopo Tahrir, la rivoluzione dopo i milioni in piazza.
Tahrir non è un tutto omogeneo, certo. Anzi, è proprio da quella disomogeneità inclusiva sperimentata nella mini-repubblica di Tahrir la sua differenza dal resto. E il suo contributo possibile alla rivoluzione del 25 gennaio. Lo spiegano gli stessi ragazzi, con un’analisi lucida e una richiesta molto idealista ma non per questo meno intrigante. Questa è una riflessione – intitolata non a casa The Post-Revolutionary Road – presa da occupiedlondon
Tahrir Square worked. It worked because it was inclusive – with every type of Egyptian represented equally. It worked because it was inventive – from the creation of electric and sanitation infrastructure to the daily arrival of new chants and banners. It worked because it was open-source and participatory – so it was unkillable and incorruptible. It worked because it was modern – online communication baffled the government while allowing the revolutionaries to organize efficiently and quickly. It worked because it was peaceful – the first chant that went up when under attack, was always selmeyya! – peaceful!. It worked because it was just – not a single attacking paramilitary thug was killed, they were all arrested. It worked because it was communal – everyone in there, to a greater or lesser extent, was putting the good of the people before the individual. It worked because it was unified and focussed – Mubarak’s departure was an unbreakable bond. It worked because everyone believed in it.
Inclusive, inventive, open-source, modern, peaceful, just, communal, unified and focussed. A set of ideals on which to build a national politics. A set of ideals to hold on to.
E visto che a Tahrir c’era disomogeneità, c’era anche da aspettarsi che Tahrir si dividesse, dopo le grandi manifestazioni. Così, Ahmed Maher, che sulla salmiyya, sulla non violenza imparata dai serbi di Otpor aveva fondato i primi giorni della partecipazione del Movimento 6 aprile alla rivoluzione, ha deciso di andare all’America. Tanto da meritarsi un articolo di Jackson Diehl sul Washington Post. Too early, direbbero gli americani, e lo dice anche un ultraliberal come Mahmoud Salem, alias Sandmonkey, che bolla la notizia come un “big big mistake”, un grande grande errore. Commento affidato a twitter, perché la politica – dalle parti di Tahrir – si fa anche (se non soprattutto) in questo modo. Invece di scrivere un editoriale su un quotidiano, o affidare una dichiarazione politica alle agenzie, nella politica digitale tutto è più veloce. E in questa velocità sta anche qualcosa che va oltre il veicolo che trasmette il messaggio, mi spiegava un antropologo culturale palestinese qualche giorno fa.
Ahmed Maher salta alcuni passaggi, va a Washington, e così facendo non farà altro che dare corpo a chi lo accusava, negli scorsi giorni, di aver fatto la rivoluzione all’ombra degli americani. Accusa non vera, perché pensare che sia stato Ahmed Maher e il movimento 6 aprile a fare la rivoluzione vuol dire non aver seguito e visto lo stato di prostrazione e di disperazione in cui versava tutto l’Egitto negli anni più recenti…. Le rivoluzioni, a tavolino, non si fanno.
Certo è che, però, questo è un momento di svolta per i ragazzi di Tahrir. Devono capire cosa fare. Non vogliono fare un partito, alcuni. Perché un partito di tipo occidentale non risponde alle necessità del Nuovo Egitto. Mi convince molto, questa analisi, che è quella narrata dai ragazzi che scrivono suoccupiedlondon. Ma allora come fare, a disegnare la proprio strada politica e, soprattutto, a rappresentarla dentro le istituzioni? Chissà come risponderanno i ragazzi. Sono certa che daranno risposte interessanti.
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