ANALISI DI NUNZIO CORONA
Roma, 26 gennaio 2011, Nena News – Di fronte al quadro disperante disegnato dai Palestinian Papers pubblicati e commentati in questi giorni sul web da Al Jazeera e il Guardian, Lucio Caracciolo su la Repubblica del 25 gennaio si chiede fino a che punto il negoziato israelo-palestinese sia una vera e propria trattativa e non invece un “teatro allestito per l’opinione pubblica internazionale che serve a perpetuare lo status quo”. E conclude domandandosi quale senso abbia “mantenere in vita questa finzione” attraverso il continuo sostegno offerto all’Autorita’ Nazionale Palestinese (ANP).
E’ l’ora infatti di interrogarsi con grande senso di responsabilità sull’impatto che la cosiddetta cooperazione internazionale ha avuto e sta avendo sul conflitto israelo-palestinese, sul ruolo che i donatori devono svolgere prendendo sul serio gli effetti che inevitabilmente l’aiuto umanitario e allo sviluppo hanno in tale contesto.
Proprio in queste settimane, per iniziativa dell’OCSE, ha luogo in 85 paesi, compresa la Palestina, un’interessante indagine conoscitiva per stimare il grado di raggiungimento degli obiettivi fissati nella Conferenza di Parigi del 2005 sull’Efficacia degli Aiuti. I risultati dello studio forniranno indicazioni ai 135 Paesi donatori e alle 27 organizzazioni internazionali per le loro future strategie di aiuto a Paesi terzi. Dal questionario che sta da qualche tempo circolando tra i vari donatori dell’ANP e’ tuttavia evidente che le informazioni raccolte sono prevalentemente di tipo quantitativo (impegni ed esborsi finanziari) lasciando alquanto inesplorato il tema della qualita’ degli interventi, con le sue implicazioni riguardanti gli effetti sul contesto sociale e politico in cui la comunita’ internazionale interviene.
Nel 1994 il Progetto Local Capacities for Peace, comprendente un vasto numero di agenzie internazionali, governi e organizzazioni non governative, cercava di rispondere a simili domande analizzando le interazioni tra aiuto e conflitto in quattordici diverse aree critiche del mondo. L’esperienza di quell’enorme sforzo veniva raccolta nel libro Do No Harm: How Aid Can Support Peace – Or War (Lynne Rienner Publisher, Boulder, Colorado).
L’approccio Do-No-Harm (DNH – Non-Fare-Danno) ha in altre situazioni evidenziato quattro aspetti che hanno una diretta rilevanza sull’aiuto fornito al Territorio Palestinese Occupato (TPO):
1. Nonostante i donatori internazionali cerchino di mantenere una neutralita’ politica, l’aiuto offerto in condizioni di conflitto non puo’ avere, e in pratica non ha, un impatto neutro nei contesti critici in cui viene fornito.
2. Le risorse messe in campo dai donatori, e la maniera in cui esse sono organizzate e fornite, svolgono un ruolo spesso ben visibile, rafforzando o indebolendo i rapporti tra i gruppi contendenti nelle societa’ “beneficiarie”.
3. In tutte le societa’, i gruppi tra loro in contesa sono sia “divisi” da certi fattori (come opposti interessi, strutture, storie o rivalità su risorse limitate) sia “collegati/uniti” da altri fattori (comuni interessi, strutture interdipendenti, alcuni valori, aspetti storici, ecc.).
4. Gli effetti dell’aiuto possono essere negativi (se i donatori ignorano i fattori che uniscono e/o potenziano quelli di divisione) oppure positivi (se i donatori rinforzano gli elementi di unione e indeboliscono quelli che dividono). L’esperienza mostra che gli effetti su questi fattori di divisione e di unione tra gruppi in conflitto non sono mai neutrali.
Tentando di applicare lo stesso approccio al conflitto israelo-palestinese, il primo aspetto che emerge e’ che l’impatto dei donatori sul conflitto avviene non soltanto sul conflitto stesso ma anche sulle dinamiche relazionali tra i vari gruppi interni alla societa’ palestinese.
E’ opinione comune, tra internazionali, palestinesi e israeliani, che gli interventi dei donatori nel TPO finiscono per rafforzare l’Occupazione israeliana. Anche la gente comune non e’ cieca al fatto che gli aiuti in pratica sollevano Israele dai suoi obblighi di potenza occupatrice; che servono a ricostruire quello che Israele distrugge e quindi permettono che queste azioni continuino; che al momento servono semplicemente a mantenere stabili i livelli di poverta’ causata dal regime di chiusura e dalle altre forme di controllo imposto da Israele alla popolazione palestinese, limitandosi a fornire risorse finanziarie per cibo, servizi, ecc.
Questa consapevolezza crea nella comunita’ internazionale una profonda sensazione di malessere tanto da metterla di fronte a due opzioni estreme: o continuare a fornire aiuti e quindi sostenere l’Occupazione, o ritirarsi completamente. Nessuno osa optare per la seconda. Nonostante preso in cosiderazione piu’ volte, infatti, l’abbandono totale del campo non e’ un’alternativa accettabile sia per i costi materiali e fisici che ricadrebbero sulla popolazione, sia per la conseguente percezione di perdita della solidarieta’ internazionale. Una simile scelta inoltre porterebbe alla scomparsa di osservatori internazionali che possano documentare quanto accade nel TPO. Per non parlare della perdita di speranza che susciterebbe la sensazione che la comunita’ internazionale abbia gettato la spugna. Il ritiro della comunita’ internazionale potrebbe accrescere la disperazione; e un popolo disperato non aiuta a fare la pace.
Pochi donatori, inoltre, si pongono il problema dell’impatto che il loro aiuto ha, o potrebbe avere, sugli elementi di divisione o di unione all’interno della societa’ palestinese. E’ chiaro, tuttavia, che a) l’allocazione delle risorse ai vari gruppi palestinesi, compresa l’ANP; b) gli effetti distributivi delle scelte fatte dai donatori su chi identificare (o no) come beneficiario; c) gli incentivi creati da vasti spostamenti di risorse, ecc.; tutti questi fattori svolgono un ruolo centrale nella dinamica dei rapporti esistenti tra i vari gruppi palestinesi.
Le decisioni dei donatori, o il processo attraverso cui tali decisioni sono prese, su chi assumere (o no), con chi associarsi (o no) in partnership o su chi ricevera’ (o no) assistenza hanno chiari effetti sulle relazioni che si sviluppano tra chi e’ prescelto e chi non lo e’. Le differenze esistenti tra i beneficiari rispetto a chi riceve che tipo di risorse, per quanto tempo e in quale ordine, hanno anch’esse conseguenze importanti.
Quando gli aiuti vanno a vantaggio di gruppi che si identificano con una delle fazioni in conflitto, gli effetti distributivi dell’aiuto finiscono per accrescere le divisioni. Nella societa’ palestinese, per esempio, la scelta di negare assistenza a chiunque sia collegato ad Hamas approfondisce le divisioni tra chi e’ in qualche modo connesso a questo gruppo e gli altri gruppi presenti nella societa’. Poiche’ nessuno di essi e’ completamente monolitico, e siccome Hamas soddisfa importanti bisogni umanitari di parte della popolazione, questo genere di esclusione dovuta al marchio affibbiato a quel gruppo crea una dinamica sociale molto sfavorevole alla coesione interna di un futuro Stato. In pratica, le politiche che escludono Hamas dall’aiuto approfondiscono le divisioni e minano gli elementi di connessione. Effetti simili si possono riscontrare rispetto alle ONG locali con cui i donatori scelgono di collaborare. Chi, e in che modo, è selezionato e chi non lo e’, e per quale motivo, tutto cio’ ha effetti negativi o positivi sui rapporti esistenti tra i vari gruppi interni alla societa’ palestinese.
Nessuno si illude che l’aiuto umanitario e allo sviluppo nel TPO sia lo strumento per fermare l’Occupazione e portare la pace nella regione. L’idea di interrogarsi su queste problematiche non e’ di creare una societa’ priva di conflitti, ma di fare emergere le responsabilita’ che hanno i donatori di impiegare le loro risorse in modo da facilitare la coesione e lo sforzo comune di superare le divisioni, anziche’ ignorarle o addirittura, se pur inavvertitamente, alimentarle. Nena News
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