Altri sei luoghi comuni su Gaza

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Friday, 03 February 2012 08:25 Gisha per l’Alternative Information Center

  Un mercato nella Striscia di Gaza (Foto: flickr/OrCohen1993)

In un articolo del 12 gennaio, abbiamo cercato di analizzare alcuni dei luoghi comuni e delle semplificazioni riguardo Gaza che vengono più spesso ripetuti in Israele. Questa settimana, allunghiamo la lista con stereotipi generalmente provenienti dall’estero.

Al sesto posto: La Striscia è sotto assedio/blocco

Le parole “assedio” e “blocco” sono usate di frequente, ma siamo convinti che tali termini travisino la situazione. È da preferire “chiusura”: nel nostro rapporto del 2008 “Gaza Closure Defined” ne abbiamo spiegato in dettaglio la ragione. Tralasciando i termini e le definizioni legali, è chiaro che assedio e blocco sono utili a descrivere la difficile situazione affrontata dai residenti a Gaza, per lo più da persone di buona volontà che si trovano lì per fornire aiuto. Il problema è che questi termini tendono ad evocare una situazione da cui niente e nessuno riesce ad entrare o ad uscire (ancora, questo nonostante il fatto che il loro significato legale sia abbastanza specifico).

Non è vero che niente e nessuno si muova e proprio per questo è semplice rifiutare l’utilizzo di tali termini, rigettando così la reale e difficile chiusura che è in atto. In altre parole, basta qualche fotografia di un vivace mercato o di camion carichi  per rifiutare questa semplicistica definizione di chiusura. Il punto non è che non c’è movimento del tutto, il punto è che non ce ne sono la giusta quantità e la giusta qualità.

 

Al quinto posto: La gente di Gaza non può andare da nessuna parte

Questo non è stato lontano dalla verità fino al giugno 2010, quando l’Egitto ha iniziato a permettere un movimento maggiore di persone attraverso il confine di Rafah. Oggi circa 28mila persone passano il confine in entrambe le direzioni ogni mese e non ci sono liste d’attesa per l’uscita da Gaza verso l’Egitto. Quindi l’accesso al mondo dalla Striscia è più semplice e meno controllato da Israele.

Quello che non è cambiato affatto sono le restrizioni nel movimento da Gaza a Israele o alla Cisgiordania, probabilmente la meta più importante. Considerando che Gaza e la Cisgiordania condividono il sistema educativo e quello sanitario, che sono vincolati da innumerevoli legami familiari e sociali e che per la Striscia i principali mercati sono Israele e Cisgiordania, è facile comprendere come qui stia il cuore del problema. L’uscita da Gaza attraverso Israele, per coloro che hanno bisogno di viaggiare in Israele o in Cisgiordania, rimane ufficialmente limitata da “circostanze umanitarie eccezionali”. Nella pratica, Israele autorizza circa 3.000 uscite a palestinesi di Gaza ogni mese: quasi la metà sono uomini d’affari e il resto sono per lo più malati e i loro accompagnatori. Se si confronta tale numero con gli oltre 500mila permessi di uscita prima dello scoppio della Seconda Intifada nel settembre del 2000, si comprende come sia difficilmente sufficiente.

Sono migliaia le persone a Gaza che non hanno alcun tipo di documento d’identità e non è chiaro quanti di loro non possiedano altri documenti di viaggio validi. Per loro è impossibile uscire perché non sono riconosciuti da Israele, dall’Egitto e da nessun altro Paese. Israele, attraverso il controllo dei registri della popolazione palestinese, continua a decidere chi vada considerato residente nel territorio occupato e quindi possa ricevere una carta d’identità o un passaporto.

Al quarto posto: È illegale per Israele fermare le navi dirette a Gaza

La posizione di Gisha è che Israele ha il diritto previsto dalla legge d’occupazione di decidere quali percorsi i beni e le persone che entrano e escono dalla Strisca debbano compiere, le condizioni del loro passaggio e i controlli di sicurezza. Tuttavia, allo stesso tempo, ha l’obbligo di garantire il movimento e l’accesso in un modo che faciliti la vita quotidiana. In altre parole, la stessa autorità che permette a Israele di fermare le navi si trasforma nella responsabilità di garantire la libertà di movimento, soggetta solo a specifiche e necessarie procedure di sicurezza.

 

Al terzo posto: Israele ha la piena responsabilità di quanto accade a Gaza a causa dell’occupazione

Nella nostra opinione, la formula che ha più senso è che il controllo sia uguale alla responsabilità: se lo eserciti, ne sei responsabile. Ciò significa che Israele ha la primaria responsabilità in tutti gli ambiti di controllo della Striscia, come ad esempio nella possibilità di esportare e nel movimento tra Gaza e la Cisgiordania. Ciò non significa, tuttavia, che altri attori non esercito un controllo: tra questi, Hamas e l’Autorità Palestinese, anche loro investiti della responsabilità per quanto accade nei campi in cui hanno potere, come ad esempio la produzione di testi scolastici o il funzionamento delle carceri.

 

Al secondo posto: Quello di cui necessita Gaza sono maggiori aiuti

Se è vero che almeno il 70% della popolazione riceve aiuti umanitari, la chiave del problema non è la mancanza di fondi quanto piuttosto la mancanza di un’attività economica che porti le persone a essere indipendenti da tali aiuti. Il solito ritornello è che la popolazione vuole lavorare, non ricevere carità. Le restrizioni al movimento, sia di beni che di persone, ha impedito ai residenti di Gaza di essere impiegati in un lavoro produttivo e dignitoso che potrebbe essere disponibile. Prendete ad esempio il caso di Naima Abu Shawareb e della sua famiglia.

La buona notizia è che Gaza ha il potenziale per dare vita ad un’economia produttiva e prospera nei Territori Palestinesi: ha infrastrutture, università, una robusta società civile, industrie e una popolazione altamente istruita. Ciò dovrebbe portare non ad essere soddisfatti ma a chiedere che si permetta lo sviluppo che tale potenziale potrebbe raggiungere.

Al primo posto: A Gaza c’è una crisi umanitaria

Come detto sopra, se si dipinge la Striscia attraverso ampie distese di termini cupi, il compito diventa quello di rifiutare e confutare tale quadro. Tutta la popolazione di Gaza vive una crisi umanitaria, intesa come un luogo devastato da carestia e miseria? La risposta è no. È vero tuttavia che senza gli sforzi e le risorse messe in campo dalle organizzazioni internazionali, comprese le Nazioni Unite, la situazione sarebbe sicuramente peggiore. È anche difficile affermare che le restrizioni al movimento che hanno soffocato l’economia e l’hanno resa dipendente dalla carità siano in qualche modo accettabili, specialmente considerando che la politica ufficiale di Israele è quella di permettere lo sviluppo economico a Gaza.

Riteniamo che la domanda se esista o meno una crisi umanitaria nella Striscia sia inutile. Abbiamo spesso l’impressione che per alcuni l’ambigua linea rossa che definisce una crisi umanitaria individui anche la portata delle loro preoccupazioni. Crediamo sia dovere di Israele e della comunità internazionale, e loro interesse, muoversi su un piano diverso e più elevato.

Tradotto in italiano da Emma Mancini (Alternative Information Center)

http://www.alternativenews.org/italiano/index.php/topics/news/3401-altri-sei-luoghi-comuni-su-gaza

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