AMIRA HASS // CINQUE GIORNI DELL’ESISTENZA DI UN PALESTINESE CANCELLATI

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tratto da: Beniamino Benjio Rocchetto

lunedì 30 agosto 2021  15:36

La testimonianza resa da Albaraa Jaber offre un tesoro di informazioni per comprendere la facilità con cui l’apparato militare israeliano priva i palestinesi del loro tempo.

Di Amira Hass – 30 agosto 2021

https://archive.is/eBVhj

“E che cosa vi porta a questo caso”, ha chiesto sorpreso il giudice militare Tenente Colonnello Azriel Levy, il 5 agosto, poco prima di liberare Albaraa Jaber da un arresto ingiusto che gli ha tolto cinque giorni interi della sua vita.

Ciò che Levy probabilmente intendeva dire era: Dopo tutto, questo è un caso trascurabile nell’attività del tribunale militare, e noi giudici siamo abituati alla presenza di giornalisti solo in casi famosi ed “eclatanti”, ampiamente discussi. Ma questo è tutto: sono proprio casi di arresto come questi, anonimi, banali e numerosi, che indicano come opera l’apparato militare al servizio dell’impresa di insediamento.

Jaber, che ha 20 anni e vive a Hebron, in Cisgiordania, era sospettato di possedere un’arma ed è stato arrestato il 1º agosto. Nonostante il sospetto, i soldati che hanno fatto irruzione nella sua casa non hanno effettuato alcuna perquisizione. Suo padre ed io sapevamo che si trattava di un’accusa inventata relativa al rifiuto della sua famiglia di cedere ai coloni. Dal dicembre 2020, i coloni hanno cercato di impadronirsi di un appezzamento di terra della famiglia nella regione di Al-Baq’aa a est di Hebron, ma i loro tentativi sono stati respinti.

E infatti, nel tribunale militare il Tenente Colonnello Levy ha dichiarato che il giorno prima la Procura Militare aveva ordinato l’archiviazione del caso di Jaber, motivo per cui il giudice ha deciso di non trasferire il giovane dal luogo del suo arresto nel carcere militare di Etzion, nel distretto di Betlemme, al tribunale militare di Ofer, nel distretto di Beitunia, ma piuttosto ti tenere un’udienza in videoconferenza.

Quattro giorni dopo il suo rilascio ho incontrato il giovane alto e slanciato e ho scritto 2.000 parole della sua testimonianza, un tesoro per comprendere la facilità con cui l’apparato militare israeliano priva i palestinesi della loro esistenza.

Per mancanza di spazio tralascio i dettagli dell’irruzione a casa sua e degli interrogatori (li ho citati brevemente in un articolo precedente*), e il numero di volte che è stato incatenato mani e piedi.

Nella cella di detenzione di Etzion, ha ricordato Jaber, c’erano da tre a cinque altri giovani palestinesi: di Jenin, Hebron, Ramallah e Betlemme. “Ogni giorno uscivamo in cortile tre volte, per un po’, anche per mangiare. Ma non c’è molto cibo, né è commestibile. Pesce crudo, panna acida avariata, pane rancido. L’uovo: lo apro e fuoriesce come se non l’avessero cucinato. Non c’è caffè, solo acqua. E apro il rubinetto e aspetto mezz’ora che l’acqua si raffreddi”.

“Fa un caldo terribile nella stanza, non ci sono materassi. Ci sono letti in ferro, ma è impossibile dormirci sopra perché scricchiolano. Dormivamo per terra, sulle coperte, e io ne arrotolavo una per farne un cuscino. Non c’erano abbastanza coperte per tutti. Abbiamo chiesto altre coperte e non ce le hanno date. Faceva troppo caldo per dormire. La stanza era sporca; ogni giorno chiedevo loro di darmi qualcosa per pulire la stanza, e non lo facevano”.

“Dopo tre giorni ho pulito con la mia camicia. (Il Portavoce delle Forze di Difesa Israeliane ha dichiarato: il cibo è identico al cibo dato agli agenti della struttura. Anche i letti e i materassi sono attrezzature militari in dotazione anche al personale penitenziario.)

“La maggior parte del tempo siamo stati in cella. Sfinito, arrabbiato, stanco. Sapevo che giovedì ci sarebbe dovuto essere un’udienza” (la prima udienza davanti a un giudice militare). Quel giorno, verso le 11 del mattino, un soldato chiamò dall’esterno “Albaraa, Albaraa”. Ho risposto: “Sono io” e mi disse: “Yalla, vieni”. Tutti quelli che lasciano la cella vengono ammanettati, ma mi condusse nella stanza dei soldati senza manette.

“Poi è iniziata una conversazione su Zoom. Il giudice mi ha chiesto: “Come stai?” Ho risposto: “Davvero male”. Il giudice ha chiesto: “Perché male?” Gli dissi: “Ho subito un torto”. Il giudice mi chiese: Vuoi tornare a casa? Sì, risposi, sono stanco di tutto questo, sono sfinito, ve ne sarò grato.’ E poi il giudice mi ha detto: ‘Oggi te ne vai’. Mi sentivo come se mi stesse prendendo in giro. Non ci credevo. E poi mi hanno riportato in cella.

“Alle due del pomeriggio, quando siamo usciti in cortile, mi sono avvicinato al soldato nella guardiola (la stanza all’ingresso della struttura di detenzione) e ho chiesto se era vero che sarei stato rilasciato. Un soldato ha detto che non sapeva nulla. Ho insistito, e alla fine mi ha detto che cinque prigionieri sarebbero stati rilasciati quel giorno. Gli ho chiesto di dirmi i nomi, e c’era anche il mio tra gli altri. Sono tornato in cella e sono rimasto fino alle 21, soddisfatto”.

Jaber non sapeva che il Tenente Colonnello Levy aveva ordinato di liberarlo immediatamente, cioè verso mezzogiorno. Non sapeva che l’avvocato Riham Nasra aveva ripetutamente chiamato la struttura e chiesto il suo rilascio, o che a partire dalle 18:00 aveva anche iniziato ad assillare il Portavoce dell’IDF (la spiegazione del Portavoce: “errore umano”).

“Poi sono arrivati ​​i soldati e mi dissero: ‘Vieni, sei libero’. Quando ho lasciato la cella mi hanno ammanettato mani e piedi e condotto in un’altra stanza dove mi hanno restituito i soldi, le sigarette e la carta d’identità. Ho firmato due documenti, scritti in ebraico. In seguito, sulla strada per la jeep, mi hanno tolto le manette legandomi solo con delle fascette di plastica, e per la prima volta mi hanno bendato”.

“A un certo punto la jeep si fermò e dissero che eravamo ad Al-Aroub. Il soldato mi tolse la benda, ma non aveva un coltello per tagliare le fascette. Gli dissi che non era un problema, mi sarei liberato delle manette. Come? chiese. E mi sono contorto le mani finché la mano sinistra non si è liberata”.

Amira Hass è corrispondente di Haaretz per i territori occupati. Nata a Gerusalemme nel 1956, Amira Hass è entrata a far parte di Haaretz nel 1989, e ricopre la sua posizione attuale dal 1993. In qualità di corrispondente per i territori, ha vissuto tre anni a Gaza, esperienza che ha ispirato il suo acclamato libro “Bere il mare di Gaza”. Dal 1997 vive nella città di Ramallah in Cisgiordania. Amira Hass è anche autrice di altri due libri, entrambi i quali sono raccolte dei suoi articoli.
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