tratto da: Beniamino Benjio Rocchetto
Di Amira Hass – 3 Agosto 2020
https://www.haaretz.com/opinion/.premium-what-comes-first-an-israeli-army-firing-zone-or-palestinian-villages-1.9043528 https://archive.is/PKBEG
Lunedì prossimo i giudici dell’Alta Corte di Giustizia discuteranno la richiesta dello Stato di Israele di distruggere otto villaggi palestinesi nella Cisgiordania meridionale. Si dovrebbe dire: discuteranno ancora una volta, perché la richiesta del governo non è nuova.
Per circa 40 anni le Forze di Difesa Israeliane e l’Amministrazione Civile hanno fatto tutto il possibile per far sparire queste comunità, mentre loro, nella propria eroica e prolungata battaglia contro l’estinzione, si sono rivolti anche ai canali legali appellandosi. Nel gergo militare israeliano, l’area designata per la demolizione e lo sfratto dei suoi residenti palestinesi è conosciuta come “zona di fuoco 918”. In arabo ed ebraico ordinari è Masafer Yatta.
Ora ai giudici dell’Alta Corte viene chiesto di decidere una volta per tutte cosa viene prima: un’area per esercitazioni militari, o un’antica comunità e i legami tra una città e i villaggi che la circondano.
“Ciò che viene prima” è una questione di cronologia, principio ed etica. Israele afferma che la “zona di fuoco” è stata dichiarata tale nel 1980 e che i residenti sono “abusivi illegali” che si stabilirono lì successivamente. I fatti geo-storici, che non sono soggetti a date, mappe e intenzioni palesi e occulte della potenza occupante, indicano il contrario.
Le radici rurali della città di Yatta, già nel periodo ottomano, non sono in dubbio. L’allevamento delle pecore e l’agricoltura sono alla base della sua esistenza e del patrimonio culturale delle sue famiglie. La sua espansione e il processo di urbanizzazione che ha subito sono fenomeni naturali. Nella seconda metà del 19º secolo c’erano circa 2.000 residenti. Oggi sono quasi 70.000. L’area complessiva della sua estensione, che è stata riconosciuta e determinata molto prima del 1967, è di 170.000 Km quadrati.
Il costante aumento del numero di residenti e la dimensione delle mandrie di pecore ha portato alla creazione di diversi rami agresti, da persone alla ricerca di nuovi terreni disponibili per il pascolo e la coltivazione, e ulteriori fonti d’acqua o luoghi dove scavare nuove vasche interrate per raccogliere l’acqua piovana.
A Yatta, come ovunque nel paese, rimanevano in trasferta per diversi giorni e settimane, a seconda della stagione, del parto e della tosatura delle pecore. Le grotte naturali a volte sono state adattate come alloggi. Gradualmente i rami agricoli stagionali sono diventati permanenti.
I legami familiari, economici e sociali con il villaggio di origine, oggi diventati città, sono stati mantenuti. Ma nel tempo ogni comunità sviluppa anche caratteristiche proprie. Quanta bellezza è contenuta in questa continuità geo-umana e nella natura universale del processo evolutivo, che può essere ammirato in tutto il mondo.
Israele ha operato e opera con vari metodi per recidere questa naturale continuità palestinese. Dichiarare una zona come poligono militare è uno di questi. Altri metodi sono il divieto di allacciamento alla rete idrica, gli avvisi di sfratto e lo sfratto effettivo, il divieto di costruire scuole, cliniche e bagni o la loro demolizione, la confisca dei trattori e dei tubi dell’acqua, il blocco delle strade, il rifiuto di preparare i piani generali o la progettazione piani generali limitati che non consentono un vero sviluppo.
Tutti questi metodi sono stati utilizzati e sono in fase di sperimentazione su decine di siti naturali di Yatta, creati prima del 1948 e in cui vivono migliaia di persone. E così, in modo innaturale, il numero di persone in ogni comunità è rimasto limitato.
Inizialmente la “zona di fuoco 918” copriva 32.000 Km2 del territorio di Yatta. Nel corso degli anni sono stati sottratti circa 7000 Km2. Questa è precisamente l’area in cui diversi avamposti israeliani sono spuntati e cresciuti e alcuni insediamenti sono stati ampliati.
Israele sta ora offrendo un generoso “piano”, a suo dire: perché i pastori e gli agricoltori abbandonino i loro villaggi e vengano nella loro terra per coltivare o pascolare solo nei fine settimana e nei giorni delle festività ebraiche. Il governo sta inoltre valutando di consentirgli l’accesso per ulteriori due mesi l’anno, quando è necessaria una ulteriore semina o il pascolo.
Come possiamo concludere dalla sua risposta ai ricorsi degli abitanti del villaggio, il governo si aspetta che i giudici Esther Hayut, Uzi Vogelman e Hanan Melcer decidano che gli ebrei vengono sempre per primi. Che è sempre più kosher, consono e corretto cancellare la naturale continuità umano-geografico delle comunità palestinesi.
Amira Hass è corrispondente di Haaretz per i territori occupati. Nata a Gerusalemme nel 1956, Amira Hass è entrata a far parte di Haaretz nel 1989, e ricopre la sua posizione attuale dal 1993. In qualità di corrispondente per i territori, ha vissuto tre anni a Gaza, esperienza che ha ispirato il suo acclamato libro “Bere il mare di Gaza”. Dal 1997 vive nella città di Ramallah in Cisgiordania. Amira Hass è anche autrice di altri due libri, entrambi i quali sono raccolte dei suoi articoli.
Trad: Beniamino Rocchetto
La traduzione è pubblicabile liberamente da chiunque
Quest'opera viene distribuita con Licenza Creative Commons. Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.