admin | October 14th, 2013 – 8:29 pm
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Che l’archeologia sia stata, nel corso della storia, uno degli strumenti della politica, è cosa nota. Notissima agli studiosi di politica internazionale, un po’ meno al grande pubblico. Ma basta rifletterci un po’, e pensare a quello che è successo da noi, in Italia, per capire che, sì, l’uso politico dell’archeologia ha segnato pesantemente alcuni precisi momenti storici.
Il Medio Oriente non può essere un capitolo a parte. È lo stesso anche lì, e soprattutto a Gerusalemme. Un articolo recentissimo del Christian Science Monitor ce lo ricorda, più per quello che non dice che per le notizie contenute nella ricostruzione della difficoltà di fare archeologia nella città fin troppo santa. Dice tutto, l’articolo. Dice che non si può spostare un granello di sabbia senza suscitare le ire della parte avversa. Dice che il sito archeologico della Città di David, proprio al di fuori delle Mura di Solimano, è controverso. Dice che i palestinesi del quartiere di Silwan dove il sito della Città di David è stato aperto da anni, sono a rischio, per gli ordini di demolizione, per la tensione quotidiana. Dice anche che sul Monte del Tempio/Spianata delle Moschee non si può fare una campagna di scavo. Dice, dice, dice. Ma lo fa dire solo a una parte, solo alle voci israeliane. Le altri voci sono silenziose. O meglio, rimangono in silenzio nell’articolo del Christian Science Monitor.
Eppure parlano, vogliono parlare.
Per saperne di più, c’è qualche pagina dedicata nel mio libro Gerusalemme senza Dio a quel sito (che ho visitato da turista) della Città di David, a quel quartiere di Silwan, alla gente che rischia di vedere distrutta dalle autorità municipali israeliane la casa sulla quale – ironia della burocrazia israeliana – paga la versione locale dell’IMU da anni e anni. E anche alla storia di Silwan, divenuta dopo il 1948 il rifugio per molte delle famiglie palestinesi scappate dai loro villaggi della cintura gerosolimitana. Lo stesso quartiere dove, nel pre-1948, vi era stato il villaggio yemenita ebraico prima dei tumulti e della cacciata dei suoi abitanti.
Perché l’architettura, a Gerusalemme, non è neutrale. Tanto meno lo è l’archeologia.
Un breve estratto delle pagine dedicate a Silwan:
Il colpo d’occhio su quel ripido pendio è di quelli che non si dimenticano. Una sorta di favela arroccata lungo la collina, case su case, palazzetti cresciuti su se stessi, una densità abitativa tra le più alte di Gerusalemme. Silwan è uno di quei quartieri cresciuti in misura esponenziale, già dal 1948, quando arrivarono le famiglie in fuga dai villaggi come Deir Yassin o Malha, a ovest di quella che poi sarebbe stata la Linea Verde. Famiglie in fuga per la guerra e le incursioni dei gruppi armati ebraici, che erano state spinte a stanziarsi dopo il 1948 in un centro abitato che i dolori del conflitto li aveva già vissuti qualche decennio prima. Nel 1929, quando ebbe inizio lo spopolamento del villaggio yemenita a Silwan, dove risiedevano – in una convivenza con gli arabi che datava dalla fine dell’Ottocento – gli ebrei di origine yemenita. I disordini del 1929, e poi la rivolta araba del 1936, segnarono la fine della presenza ebreo-yemenita a Silwan, tra accuse di pogrom ed espulsioni.
Una storia dura, dunque, quella del villaggio-quartiere in cui la presenza araba non data, comunque, dal 1948, ma addirittura – dicono alcune famiglie – dai tempi del Saladino. Una storia che, negli ultimi anni, si è – per così dire – arricchita di un capitolo difficile che parla la lingua burocratica degli ordini di demolizione, delle salatissime multe per abusivismo edilizio, delle battaglie legali combattute nel piccolo tribunale comunale in cima al quartiere di Musrara, accanto al palazzone del municipio. Il piano israeliano è quello di trasformare quanta più parte è possibile di Silwan in parco archeologico, a cominciare dalla sua zona centrale, Al Bustan, “il giardino” in lingua araba, che si trova proprio sotto al centro di scavo della Città di Davide. Poco meno di un centinaio gli ordini di demolizione di case consegnati da tempo ai proprietari, e le ruspe hanno già cominciato il loro lavoro, in alcuni casi. Il risultato è una situazione al limite dell’esplosivo, con continui scontri tra polizia israeliana e residenti, lanci di pietre, lacrimogeni, la piccola intifada settimanale del venerdì, gli arresti, la chiusura del quartiere, spesso presidiato dalle camionette della polizia di frontiera.
Il caso eclatante della Città di Davide va, comunque, oltre la sua specificità. Oltre lo stesso valore archeologico degli scavi passati, presenti e futuri. Descrive, soprattutto, un atteggiamento verso la storia plurimillenaria di Gerusalemme che è lo stesso della politica perseguita dalle autorità israeliane – a tutti i livelli – già all’indomani della Guerra dei Sei Giorni sino a oggi. L’idea è quella di una narrazione della città in cui l’identità ebraica sia preponderante, a tal punto da ridimensionare, o addirittura considerare accessoria la presenza – nel percorso storico – di altri protagonisti. È ancora una volta il caso esemplificativo della Città di Davide ad aiutare la comprensione: l’accusa arrivata sia dai palestinesi sia da archeologi israeliani è che gli scavi non siano stati solo “a tesi”, tendenti dunque a confermare un teorema interpretativo, ma che per fare questo abbiano accantonato tutto il resto: la presenza romana, bizantina, araba. Nella cronologia della plurimillenaria storia di Gerusalemme, insomma, la politica condotta dalla Elad nella Città di Davide, e di altri archeologi dentro la Città Vecchia, narra una storia a corrente alternata, esalta i periodi della presenza ebraica e costringe gli altri in una sorta di dimensione carsica.
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