Aria da terremoto

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admin | April 7th, 2011 – 4:09 pm

L’articolo di Richard Goldstone sul Washington Post ha scatenato in Israele un dibattito che è ancora lungi dall’essersi concluso. Un dibattito che la tragica morte di Juliano Mer Khamis non ha neanche lambito. Eppure, tutti e due gli eventi hanno in comune qualcosa: il conflitto. Non si può discutere del Rapporto Goldstone, dell’Operazione Piombo Fuso, senza discutere di Juliano Mer Khamis, del Freedom Theatre, della storia del campo profughi di Jenin, delle generazioni perdute. Dei morti e delle ragioni della loro morte.

Ieri Amira Hass ha scritto (su Haaretz) un articolo bellissimo su Juliano Mer Khamis, un articolo che – ne sono certa – riguardava anche lei, la sua vita quotidiana, il suo lavoro, la sua inestinguibile carica morale. Oggi Gideon Levy fa lo stesso, sempre su Haaretz, riflettendo su quello che Goldstone ha fatto, con il Rapporto Onu e con la sua singolare revisitazione alla luce delle indagini che le forze armate israeliane hanno compiuto su se stesse. Senza rivolgersi a un giudice terzo. Israele sta usando l’articolo di Goldstone come uno strumento per migliorare le pubbliche relazioni con il mondo: ne sono conferma gli articoli, non solo sulla stampa israeliana, ahimè, che parlano del Rapporto Goldstone come uno degli strumenti della propaganda palestinese.

L’Operazione Piombo Fuso, lo sappiamo bene, è stata ben altro che un Rapporto d’indagine dell’Onu. È stata una guerra con circa 1500 morti, molti civili, molti donne e bambini, tutti intrappolati dentro una striscia di terra di 400 chilometri quadrati colpita con bombardamenti la cui pesantezza ha pochi precedenti nella storia della regione. E un articolo del Washington Post non risolverà i problemi morali della società israeliana che Gideon Levy ricorda nel suo articolo.

Andando oltre l’Operazione Piombo Fuso, tra le pieghe di entrambi gli articoli, e solo mettendoli insieme, riesco almeno a intuire quel bandolo della matassa che, oggi, il conflitto israelo-palestinese nasconde. È un bandolo, un piccolo filo scoperto che parla di tensione, di piccoli e grandi episodi, di un’aria che sembra foriera di tempesta. Un po’ come quei giorni in cui l’aria è tanto ferma, tanto pesante e tanto calda che – dicono i vecchi in Italia – è “aria da terremoto”.

Amira Hass si interroga su chi possa essere l’omicida di Juliano Mer Khamis, perché conoscendo i dati dell’omicida riusciamo anche a capire le motivazioni. A capire, in sostanza, cosa sta succedendo nella Cisgiordania sempre occupata, dove la tensione tra coloni e palestinesi sta arrivando a punte talmente alte da essere solo foriere di violenza diffusa. Gideon Levy dal canto suo, come sempre, non lascia spazio neanche alla più timida speranza. Dice, in sostanza, che dobbiamo prepararci a una Operazione Piombo Fuso 2, a Gaza, dove nelle scorse settimane ci sono stati, seguendo la cronologia, raid aerei israeliani, razzi delle fazioni armate, raid aerei israeliani, tregua tra le fazioni palestinesi, raid aerei israeliani, colpi di mortai palestinesi. In entrambi i casi, ci sono due convitati di pietra. Israele e le Rivoluzioni arabe.

Provo a spiegare perché. Da circa tre mesi Gerusalemme non è più il centro del mondo. Il conflitto israelo-palestinese non è più il catalizzatore delle tensioni geopolitiche regionali. È un perdurante conflitto locale con le sue ‘regole’ e il suo tragico equilibrio. Le Rivoluzioni arabe, però, hanno pesato e stanno pesando moltissimo. Il tragico equilibrio decennale è stato travolto dalla tempesta politica e sociale che continua ad attraversare tutti i paesi arabi, nessuno escluso. L’establishment israeliano non sa più dove si trova, quali sono le nuove regole che verranno scritte, chi saranno i nemici, gli avversari, i potenziali attori con i quali trattare. È come se, in una ricetta di cucina, si dovesse reinventare tutto perché gli ingredienti e le dosi sono tutti – ripeto: tutti – cambiati.

I palestinesi stessi sono stati travolti. Come società araba, che sente il vento del “potere al popolo”, e che della tempesta rivoluzionaria fa parte. Come politica, costretta dalla tempesta a dare risposte che prima ha voluto negare, rinviare sine die. Anzitutto, sulla riconciliazione tra Fatah e Hamas. E se la società e la politica palestinese sono travolte, è evidente che questo inciderà sul conflitto con Israele. Risultato: stanno saltando le regole del conflitto stesso. Rimangono gli attori, Israele e Palestina. Ma è come se si dovesse riempire i rispettivi involucri di altre categorie, altri parametri, altre interpretazioni. Nebbia, nient’altro che nebbia. Una nebbia in cui può succedere di tutto, dalla strategia della tensione a una nuova guerra.

Nelle scorse settimane, i segnali che qualcosa di violento stia covando si stanno sommando come quando si vedono i segnali di un terremoto. I cani abbaiano, gli uccelli volano bassi, l’aria è stagnante, quasi grigia. Non è però con la solita via militare alla soluzione dei problemi che si uscirà dalla nebbia. Neanche questa volta. Soprattutto, neanche questa volta.

Il dossier della riconciliazione è parte importante, se non determinante, di questa nebbia. Stavolta le cose sembrano più serie di prima, per arrivare a una riconciliazione tra Fatah e Hamas. Abu Mazen stavolta la vuole sostenere. Hamas è divisa, ma potrebbe essere spinta a farla. E soprattutto l’Egitto non è quello di prima. Fuori scena (ma dove?) Omar Suleiman, gli egiziani vogliono la riconciliazione, anche perché non vogliono Gaza. Quanto, però, la riconciliazione piace a Israele. Non molto. Anzi, per niente, a giudicare anche dalle dichiazioni di questi ultimi giorn. Ma la riconciliazione ha bisogno di più spazio, anche su questo blog. Ne parlo nei prossimi giorni, dopo la visita (di oggi) di Abu Mazen al Cairo.

La foto rivisitata da Guebara, è presa dal suo album su Flickr, Support the Revolution.

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