Attesa. Di giustizia.

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“Israele continua ad agire impunemente, ma noi continueremo a chiedere giustizia e pace. Le nostre preghiere di ogni settimana, da anni ormai, sotto gli ulivi delle nostre famiglie, non si fermeranno perché sono per la pace, e senza violenza né provocazioni. Noi stiamo chiedendo solo la pace. Ma perché arrivi la pace, la giustizia deve venire prima. Perché i paesi e i leader che si vantano di essere cristiani non trasformano le loro “grandi preoccupazioni per i cristiani di Terra Santa in denuncia?”
Abuna Ibrahim Shomaly, parroco di Beit Jala

In queste ore eravamo un po’ tutti lì, alla Corte suprema dello stato d’Israele, dove avrebbe dovuto chiudersi con una sentenza di giustizia la vergognosa questione della illegalità del muro di apartheid sulla terra del villaggio di Beit Jala.
Diciamo subito che non c’è stata la dichiarazione finale, come ha raccontato abuna Mario Cornioli, della delegazione presente alla seduta: “La Corte non si è espressa, prendendo tempo, perché sembra che i nostri avvocati siano riusciti a sbugiardare le menzogne dell’Avvocato dello Stato e soprattutto del Responsabile del tracciato del muro. Ora siamo in attesa. In attesa che la verità venga fuori, in attesa che la giustizia trionfi, in attesa di una decisione giusta e onesta da parte di una Corte formata da tre giudici: quello principale ispirava fiducia e onestà, mentre gli altri due un po’ meno. Speriamo di sbagliarci.”
Davvero troppo poco l’ottimo servizio al TG3 della scorsa settimana, perché l’opinione pubblica e la comunità internazionale prenda posizione ed impedisca che anche questo splendido angolo di Palestina venga rubato e distrutto dalle ruspe israeliane.
Ma dovendo lanciare la decima edizione della Giornata del 1 Marzo contro il muro a Betlemme (che significa che sono passati ormai dieci anni dall’inizio del muro che soffoca la città!), sottolineiamo le sconsolate parole del parroco abuna Ibrahim: “Perché i paesi e i leader che si vantano di essere cristiani non trasformano le loro “grandi preoccupazioni per i cristiani di Terra Santa” in denuncia?”
Certo, il 29 gennaio, alla Corte israeliana, era presente tutta quella parte di chiesa che da anni è fortemente impegnata nella lotta nonviolenta per difendere la popolazione e la terra di Beit Jala, come riporta Mario: “C’erano, insieme a tredici rappresentanti di diversi Consolati, compreso l’Italia, il Vescovo Ausiliare di Gerusalemme, William Shomali, il cancelliere patriarcale e altri cinque sacerdoti. E poi, soprattutto, c’erano loro: i nostri parrocchiani di Bet Jala con il loro sindaco e quello di Betlemme. Autorità e gente semplice che rischia di perdere tutto e che da due anni celebra la Messa sotto gli ulivi”.
Ma ci vorrebbe un ben più forte e indignato sussulto da ogni parte del mondo per denunciare un’aggressione di stato che non solo sconvolgerà la proprietà di 58 famiglie palestinesi ma completerà un ben più devastante disegno di colonizzazione della collina che impediva all’enorme insediamento di Gilo di mangiarsi per sempre la terra palestinese attorno a Gerusalemme.

Noi non taceremo. E fra pochi giorni saremo proprio lì, con i pellegrini di giustizia, sotto gli ulivi della gente disperata e stanca di Beit Jala, a pregare e a denunciare, per non lasciare soli questi fratelli. In tutta Italia sabato 1 marzo si leverà una corale invocazione di giustizia che coinvolgerà singoli e comunità. E se fra pochi giorni il tribunale di uno stato che è responsabile del più odioso apartheid in atto nel mondo, partorirà una sentenza che ci auguriamo esprima l’umano senso di giustizia, ci uniamo alla convinzione di abuna Gabriel che, uscendo dall’aula della Corte israeliana ha detto ai giornalisti:
“La verità è dalla nostra parte e quindi anche la giustizia dovrà venire dalla nostra parte”.

BoccheScucite

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