Simbolo di tenacia e di resistenza pluridecennale, Battir rischia di dover rinunciare alla sua ricca tradizione e al peculiare paesaggio. Il «Muro di Separazione» si appresta a dividere gli abitanti dalle loro fertili e suggestive terre circostanti
ELENA VIOLA
Battir (Cisgiordania), 20 aprile 2012, Nena News – “E’ come una rete,” dice Hassan Moamar, uno degli abitanti dei Battir, villaggio palestinese in lotta da ben sette anni contro la minaccia incombente del Muro costruito da Israele in Cisgiordania. “Non puoi tagliarla nel mezzo senza romperla.”
Battir è un villaggio palestinese situato 10km a sud-ovest di Gerusalemme, lungo la storica linea ferroviaria che dalla Città Santa conduce alle coste del Mediterraneo in prossimità di Giaffa. La peculiarità e l’importanza di una località, solo apparentemente come le altre, risiedono proprio nella sua localizzazione geografica.
Durante la guerra arabo-israeliana (1947-1949), il villaggio di Battir era luogo di contesa per la sua prossimità con la madre di tutti i crocevia commerciali: la stazione ferroviaria di Gerusalemme. Nonostante questo villaggio, e altri in una simile posizione come Al-Qabu, Al-Walaja, Al-Malha, Sharafat e Beit Safafa, fosse nel mirino del nemico, mai fu occupato dalle forze israeliane.
Quando fu firmato l’armistizio al termine della guerra, le località attigue, e Battir in primo luogo, si vennero a trovare nel mezzo di quell’area demilitarizzata denominata No Man’s Land (Terra di Nessuno) situata tra le due linee immaginarie poste ad indicare le posizioni del fronte giordano e israeliano al momento del ‘cessate il fuoco’. Trovarsi nel limbo di due parti non omogenee poteva voler dire solo una cosa: il dover sgomberare al più presto.
In aggiunta a una posizione logistica certamente scomoda, a complicare le cose fu l’autorizzazione concessa dal giordano King Abdullah di lasciare i villaggi palestinesi situati nella Terra di Nessuno al governo israeliano, dando così alla potenza rivale il pieno e tanto voluto controllo sull’intera linea ferroviaria.
“Attraverso una campagna di resistenza civile, presenza effettiva sul territorio, scaltrezza politica, lobbismo, e coraggio, le forze israeliane non entrarono nel villaggio di Battir nel 1949,” dice Jawad Botmeh in Civil Resistance in Palestine: The Village of Battir in 1948 (La resistenza civile in Palestina: Il villaggio di Battir nel 1948). “Esso si salvò dalla distruzione grazie alle azioni orchestrate dal ‘Figlio del Villaggio’ Hasa Mustafa.”
Mustafa convinse il comandante delle forze israeliane Moshe Dayan, il cui unico scopo era avere pieno controllo sugli spostamenti terrestri in Israele a partire dalla stazione di Gerusalemme, di lasciare a lui e agli abitanti di Battir la possibilità di continuare a coltivare le proprie terre senza doversi spostare altrove, in cambio del loro personale impegno a occuparsi della manutenzione della linea ferroviaria. Il patto orale tra i due trova conferma scritta nell’Accordo di Armistizio del 1949.
Inoltre, per risollevare gli animi cupi dei suoi compaesani, Mustafa iniziò un piano di sviluppo nella comunità di Battir senza precedenti. Tra scuole, strade, e strutture comunitarie, a lui si deve anche la primitiva versione del sistema d’irrigazione detto ‘ciclo a otto giorni’. Come riporta il quotidiano Haaretz, “si tratta di un sistema di distribuzione dell’acqua dai pozzi del villaggio alle otto famiglie che vi abitano, che permette a ogni famiglia di utilizzare l’acqua comune per un giorno a settimana.”
Tale sistema di irrigazione è alla base dell’antica, sofisticata ma molto fragile, tecnica di coltivazione per terrazzamenti tipica di Battir. E’ in virtù dei suoi campi stratificati su più livelli che il villaggio palestinese dall’avvincente trascorso è un papabile candidato al titolo di Patrimonio dell’Unesco. Non di meno, è proprio questo scenario mozzafiato, quale unica fonte di sostentamento per gli abitanti-agricoltori di Battir, a rischiare di non farcela qualora il temibile muro tranciasse a metà il territorio.
Se il Ministro della Difesa israeliano promette che la barriera includerà un cancello che renderà i campi accessibili ai suoi padroni, i palestinesi di Battir non ci credono nemmeno un po’. Senza contare che il muro andrebbe a danneggiare il sistema idrico e, conseguentemente, l’intero metodo di coltura a terrazze.
Una soluzione l’avvocato in difesa del villaggio di Battir, Jiat Nasser, l’avrebbe trovata. “Se la barriera può essere costruita dozzine di chilometri all’interno del territorio palestinese,” dice Nasser a Haaretz, “può anche essere eretta un centinaio di metri all’interno di quello israeliano.” Così facendo si avrebbero evidenti vantaggi sia a livello di ambiente che di sicurezza: il muro valicherebbe un terreno più alto senza compromettere un sistema di agricoltura tradizionale e senza violare l’accordo del 1949.
Negli ultimi anni gli abitanti di Battir stanno collaborando con Friends of the Earth (Amici della Terra) su questioni quali acqua, agricoltura e progetti ambientali, nel tentativo di ribattezzare Battir sia villaggio ecologico che meta turistica dall’interessante trascorso storico.
Ma, l’aver assistito inermi al completamento del muro, e alla distruzione dell’agricoltura a terrazze e del magnifico paesaggio, nel limitrofo villaggio di Al-walaja, ha scosso gli animi degli abitanti di Battir, i quali non possono non pensare a cosa accadrebbe se il loro villaggio andasse incontro a una simile tragica sorte. Nena News
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