di Amira Hass
Ogni tanto telefono ai Samouni, a Gaza, per salutarli. Quando un automatico “Come va?” scivola dalle mie labbra, immediatamente me ne rammarico. “Al Hamdullilah (che Dio sia lodato)”, è la risposta. E cos’altro potrebbero dire? L’esercito israeliano ha ucciso 29 persone della loro famiglia in appena due giorni. Ventuno sono morti nel bombardamento di una casa dove, appena il giorno prima (il 4 gennaio 2009), erano stati autorizzati a restare. La sera del 13 ottobre mi ha risposto Salah (che ha perso la figlia di due anni, i genitori e gli zii).
“Al Hamdullilah. Sono appena tornata a casa dall’ospedale. Problemi di pressione. Dopo tutto quello che abbiamo passato, è il minimo. Sono in esilio nel mio paese. Quando Richard Goldstone, delle Nazioni Unite, è venuto a visitare l’area, ha visto la catastrofe, le famiglie distrutte.
Goldstone ci è stato vicino. Gli ho fatto vedere una foto di mio padre. Gli ho raccontato di come, dopo il bombardamento, nella stanza c’erano solo cadaveri. ‘Se non ci crede’, gli ho detto, ‘chieda alla Croce Rossa’. Sono stati loro ad aiutare i feriti e a tirare fuori i cadaveri. Gli ho spiegato che volevo solo sapere perché l’esercito ci ha presi di mira”. “Mio padre ha lavorato quarant’anni in Israele. Quando si ammalava, il padrone gli telefonava per dirgli di prendersi cura di sé, di non tornare al lavoro finché non si fosse sentito meglio. Dopo la guerra a Gaza, siamo nelle mani di Allah. Un tempo vendevamo l’olio d’oliva. Ora passiamo il tempo a guardare le foto dei nostri cari uccisi. Li invidiamo. Loro riposano in pace, noi siamo stanchi”.
P.S. L’esercito israeliano sta verificando le dichiarazioni della famiglia Samouni (Internazionale 817, 14 ottobre 2009)
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