Betlemme: dove un filo rosa lega terra e dignità

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Betlemme, 26 agosto 2011

Voglia di esserci nonostante un muro di cemento. Voglia di resistere anche quando sembra di aver perso tutto. La Palestina si nutre alle radici di questa volontà. Una volontà carica di dignità e giustizia. E lo fa incarnandosi nella vita delle donne palestinesi. Che, giorno per giorno, insieme ai milioni di persone dei territori occupati, vivono l’umiliazione dell’isolamento, dei checkpoint e dei divieti.

Qui a Betlemme il coraggio della resistenza pacifica prende il nome di Fatma. La sua casa sorge vicino alla tomba di Rachele. Ma la separa dal luogo sacro il muro costruito dagli israeliani, che isola l’edificio circondandolo in una morsa soffocante. Fatma ci mostra il suo appartamento: un salotto intimo e accogliente collegato alla cucina, un piccolo balcone, una luminosa camera da letto, e segni di una forte devozione cristiana in sala. Tutto normale fino a qui. Ma la splendida vista sulla collina di Betlemme ha lasciato il posto ad un’inquietante prigione di cemento. Dalle finestre di quella casa così luminosa, il “dirimpettaio” alto e grigio si erge nella sua freddezza a rubare la libertà della famiglia di Fatma. Eccolo, il muro: non c’è angolo della casa da cui non si scorga, da cui si possa sfuggire alle telecamere collocate sul suo perimetro.

«Più di una volta è successo che i militari ci svegliassero in piena notte sfondando la porta d’entrata – racconta Fatma – poi ci rinchiudevano in una stanza della casa mentre loro mettevano tutto a soqquadro». Intimidazioni ripetute con l’unico obiettivo di liberare la zona dai suoi legittimi abitanti. Un attacco alla dignità che non ha scalfito la famiglia di Fatma. Proprio loro che, prima della costruzione del muro, gestivano sotto casa un negozio di frutta e verdura, hanno deciso di riaprire i locali con la vendita di oggetti tradizionali intagliati a mano in legno d’ulivo. E Fatma ci mostra orgogliosa un presepe circondato dal muro: «L’ho intagliato per testimoniare che la speranza c’è sempre nonostante l’oppressione che stiamo vivendo».

Rimanere per resistere. Anna è nata a Roma. Per amore si è trasferita a Betlemme, dove vive con i figli. Il marito Abdul, attivista palestinese per la liberazione del suo popolo, è morto nel 2007 dopo una grave malattia. La lunga attesa al checkpoint durante una crisi di salute ha impedito a Abdul di raggiungere in tempo l’ospedale per essere assistito con le cure adeguate. «Rimanere sola con due figli piccoli è stato come perdere entrambe le gambe in un colpo solo – ricorda commossa Anna – vivere qui nei territori occupati dà la sensazione di essere un topo in gabbia, ma è casa mia e non posso vivere senza nutrirmi della straordinaria e inarrestabile vitalità dei giovani palestinesi che abitano qui!».

E quei giovani di cui parla, Anna li conosce bene. Sono parte del popolo palestinese che, dopo aver perso tutto durante la Nakba (catastrofe) del 1948, affolla tutt’oggi i campi profughi. Ben tre se ne contano nella sola Betlemme: «Ho vissuto i primi anni di matrimonio in un campo – spiega Anna – sono luoghi squallidi, dimenticati dalla comunità internazionale e bistrattati da chi vive poco lontano da essi, ma vi posso assicurare che all’interno ho sempre trovato una ricchezza umana incredibile e mai provata altrove». Nei campi profughi insieme al marito, Anna ha toccato con mano la forza di chi cerca un riscatto nella dignità: «Nel campo c’erano giovani intelligenti, che la sera andavano a studiare alla luce dei lampioni perchè non avevano elettricità, il tutto pur di non rinunciare alla loro cultura e alla speranza di un futuro libero per la Palestina».

Eccolo, il meraviglioso filo rosa della Palestina. Che, attraverso i volti e le storie di queste due donne, tesse senza sosta il desiderio di una pace vera nel segno della dignità di ogni uomo. Perchè questa terra, un giorno, possa davvero dirsi santa.

 

 

Team del Pellegrinaggio di giustizia

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