In volo sopra la Berlino in bianco e nero. La Gedächtniskirche, i palazzoni, la Porta di Brandeburgo, la Staatsbibliothek, i pezzi sterrati nel cuore della città. il Muro. Gli occhi di Damiel (e del suo angelo sodale, Cassiel) si poggiavano su una città al limite della follia. La città-isola che tutti noi ha affascinato, prima della caduta del Muro. Per me, e forse per quella parte della mia generazione che è riuscita a vivere la storia di Berlino, Bruno Ganz è Damiel, è l’angelo malinconico del Cielo sopra Berlino di Wim Wenders. E’ lo sguardo empatico di chi ascolta i pensieri degli uomini.
Per questo, io credo, Bruno Ganz-Damiel mi ha accompagnato a Gerusalemme senza che io me ne accorgessi. Dalla città del Muro alla città dei Muri. Mi sono sentita dei panni di chi, privilegiato, poteva ascoltare i pensieri degli altri. Non ho mai dimenticato questo sorprendente privilegio, né che a spiegarmelo sia stato proprio un grande attore, in un film indimenticabile.
da Gerusalemme senza Dio (Feltrinelli, 2013)
Angeli in ascolto
D’altro canto, i suoni di Gerusalemme mi hanno colpito sin dall’inizio della mia vita in città, seppur inconsciamente. Suoni che non avevano nulla a che fare con i ritmi del giorno o della fede. Sono stati, semmai, i suoni anonimi, normali, ad attrarmi sin da subito. Le urla del mercato, le frasi smozzicate, i lamenti, gli ordini dei soldati, i saluti, le richieste di chi chiedeva l’elemosina. Come una radio gracchiante che mette assieme più voci sulla stessa frequenza. Come le conversazioni al telefono, rubate nelle intercettazioni. Come il chiacchiericcio su un autobus, squarcio inatteso nella vita degli altri. Ho, insomma, sempre pensato a me e agli altri strani (e privilegiati) testimoni di Gerusalemme come gli angeli di Berlino immortalati da Wim Wenders, in un capolavoro del cinema europeo – Il Cielo sopra Berlino – che per la mia generazione è stato più di un film-culto. Wenders aveva reso l’immagine di Berlino ben più complicata di una foto da cartolina. Aveva tolto i colori forti della città che era diventata col tempo il mito dei giovani post-1968, scegliendo per la sua pellicola il bianco e nero. Berlino era bianca ed era nera, e tanto bastava a descrivere una condizione emarginata ed isolata, raccontata nel film di Wenders solo da Damiel e Cassel, i due angeli che raccolgono i pensieri muti e remoti dei singoli. Per cogliere l’animo della città.
Ecco, per me Damiel e Cassel sono la singolare, a suo modo perfetta rappresentazione della condizione in cui ho vissuto il mio individuale e intimo rapporto con Gerusalemme per quasi dieci anni. E in questa rappresentazione, con quella dose sana di semplificazione, metto i viaggiatori, i giornalisti, i residenti a tempo, proprietari di un passaporto che apre porte altrimenti sbarrate: attori formalmente neutrali in una piécein cui dovrebbero solamente essere comparse. I testimoni, però, non sono mai comparse e mai neutrali, proprio perché assumono su di sé la responsabilità di raccontare ciò che vedono. Con il loro sguardo, sempre unico e sempre solitario. I testimoni come Damiel e Cassel li si trova dunque anche qui, nella Città dichiarata dagli uomini Santa, un po’ più in alto degli altri, molto malinconici, dentro un corpo che è già di sé – privilegio raro – una zona franca. Volteggiano sopra la Porta di Damasco, sopravvissuto a tutte le guerre e le divisioni conservando la sua funzione di sempre: il mercato, e dunque il centro della vita di Gerusalemme. Si spostano a est e a ovest, attraversano i confini invisibili eppure così concreti in cui la città è divisa. Sorvolano la grande periferia di Gerusalemme, quella costruita dopo il 1967 perché la città diventasse in breve tempo il più possibile israeliana, il fulcro e al tempo stesso il centro urbano più popoloso di tutta Israele. Oppure gli angeli si fermano a riposare, parcheggiano le ali e contemplano – da un vecchio cornicione o da un tetto – gli strani popoli di Gerusalemme che si sfiorano senza toccarsi, quando percorrono le poche vie in cui le diverse comunità debbono forzatamente incontrarsi, in questo intreccio di strade separate e di una segnaletica invisibile che indica ai residenti dove si può passare e dove invece tocca agli “altri” percorrere quel marciapiede, quel lastricato della Città Vecchia, entrare da quella porta, fare acquisti in quel negozio e non piuttosto nell’altro poco distante.
Si può passeggiare per Gerusalemme, seguire il filo della sua storia plurimillenaria attraverso i templi, le pietre sacre, i confini dell’altroieri e di oggi. Si possono ammirare le antiche vestigia, i nuovi traguardi architettonici. Bearsi del fascino antico e magnifico della Cupola della Roccia, oppure rabbrividire di fronte all’ardito ponte tramviario di Santiago Calatrava e ai suoi cavi d’acciaio che si inerpicano nel cielo di Gerusalemme, in direzione di Tel Aviv. Si possono abbandonare i propri occhi alla carica mistica – vera o presunta – che emerge dalla pietra bianca di Gerusalemme. Oppure si può fare altro. Si possono chiudere gli occhi e, come Damiel e Cassel, si può accendere il registratore della propria mente. Ascoltare le voci della città. Come gli angeli fanno in una delle scene culto del film di Wenders, nella Staatsbibliothekdi Berlino, tra gli scaffali e gli scaloni della biblioteca nazionale. A Gerusalemme bisogna arrivare in punta di piedi, come Damiel e Cassel, talvolta persino ciechi, sfiorando asfalto e pietra millenaria, per ascoltare gli uomini e le donne, quegli infiniti mondi – per nulla europei e tutti mediorientali – che vivono, muoiono e talvolta gioiscono nella città della loro nascita, o nella città che hanno scelto come loro luogo d’elezione.
Solo allora, come ciechi che ascoltano i suoni, si scoprirà la Gerusalemme senza Dio, la città degli uomini e delle donne, la città sulla terra e non quella celeste. Solo allora si scoprirà con compiutezza che Gerusalemme non è una città felice. Neanche quando la luce abbagliante di giugno la ricopre rimbalzando sulla pietra bianca come la pallina in un flipper. E neanche quando, d’autunno, l’imbrunire terso viene di colpo illuminato dalla tessitura di lampadine e neon della Città Vecchia, come un vecchio presepe. Gli attimi struggenti di Gerusalemme si perdono in un mare di sofferenza, di conflitti latenti, di ingiustizia. E a nulla servono i fuochi d’artificio che ogni sera punteggiano il cielo a est, per benedire prosaicamente un matrimonio. A nulla servono, a ovest, i concerti nella piazza del municipio, lo struscio su via Jaffa, il nuovissimo mall all’aria aperta di Mamilla, che segue come uno stonato inno postmoderno le Mura di Solimano all’altezza della porta di Jaffa.
È come se Gerusalemme incarnasse la città incompiuta. La città che non c’è. Eppure, l’archetipo a cui Gerusalemme si riferisce è il più alto possibile: la città celeste. Il paradiso che, come scriveva il cardinal Carlo Maria Martini in uno dei passi più belli del suo inno alla città tanto ambita, Verso Gerusalemme, non è un giardino, ma un mondo di relazioni tra gli uomini. “La meta del cammino umano non è né un giardino né la campagna, per quanto fertile e attraente, ma la città”, dice il cardinal Martini. Perché “la città ideale, meta del cammino umano, ha in sé il meglio del paradiso originario, il fiume dell’acqua e l’albero della vita: tuttavia è una città, un luogo dove gli uomini vivono in armonia, in un intreccio di relazioni molteplici e costruttive”. Una città in cui “ci vogliono le piazze, le agorain cui la gente si possa ritrovare per capirsi e scambiarsi i doni intellettuali e morali di cui nessuno e privo”[1].
Ecco il nodo. Gerusalemme non è più una città. Perché non ha piazze. È un luogo fatto di muri. Fisici prima ancora che intellettuali. Anche in questo, in questa incompiutezza, sta la sua crudeltà.
[1]Carlo Maria Martini, Verso Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 2002, p.22-23.
Bruno Ganz. Damiel – di Paola Caridi
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