5 novembre: Abu Claudio ritorna in Italia dopo tre mesi di servizio al popolo palestinese. Un tempo breve e intenso che ha voluto condividere e con-patire con la gente della Palestina occupata e con tutte le persone che vogliono come lui condividere la sete di giustizia e con-patire l’attesa di un mondo che vuole e deve restare umano. Pubblichiamo la quarta e la quinta delle sue lettere-testimonianza certi che il passaparola coinvolgerà un numero sempre maggiore di persone, perchè è solo sognando insieme che i sogni diventano realtà. Buona lettura.
Quarta lettera dalla Palestina
Nell’ultima settimana sono stato parecchio a Hebron, che mi sembra il posto meglio dove stare.
Quando ho scritto che qui non c’è troppo caldo, per lo meno non la sera, non ero ancora andato su Google a cercare le elevazioni delle città: ebbene Gerusalemme è a 750 mt sul livello del mare, Ramallah a 850 mt, e Hebron a 950 mt. E per questo le strade sono ripidissime, sia nei paesi come Hebron che in quelle per arrivare qui, un vero saliscendi…
Oggi sono tornato a Hebron, sperando che il computer riprenda a funzionare; invece è la serata in cui anche altri computer sono in tilt… intanto scrivo, poi si vedrà. Gli incontri in autobus e per strada sono sempre belli. Prima una signora con la figlia sui 25 anni, che si mettono a chiedere cose – il bello è che era l’anziana a chiedere, mentre la figlia traduceva – molto interessate ai nostri lavori di campagna, così simili a qui, ma poi quando spiego che faccio il Ramadan per solidarietà si appassionano, e raccontano della cena che avrebbero fatto la sera con tutti i parenti. La cena è oramai la solita: riso, carne di pecora, yogurt e insalate. Salendo poi a casa incontro un distinto professore di inglese: ma anche lui fa Ramadan; mi aspetta a cena tra un paio di giorni, e anzi si dilunga sui pregi del Ramadan, soprattutto diminuzione dei grassi in circolazione. Un altro mi ha spiegato che è come fermare un motore anziché farlo andare continuamente, finisce che si pulisce meglio; e se siamo un po’ più deboli per il lavoro, che ci fa, ce n’è di mesi per lavorare. E il bello è che sono io quello che ce l’ha di più con le religioni, per i danni che hanno fatto e le guerre che hanno causato.
Per restare al Ramadan, la settimana scorsa sono stato con questo inglese (venuto in Palestina qualche anno fa e ora è sposato qui) a trovare una famiglia di agricoltori in una località un po’ fuori Hebron. Un incontro molto bello, in famiglia patriarcale, all’ora di cena perché sono tutti riuniti ed è l’ora in cui si può parlare: un paio di mesi fa ci fu un attacco dei coloni: prima fanno trovare la macchina con i vetri fracassati, così chiamano la polizia, ma è una operazione di distrazione: il vero obiettivo era attaccare a sassate la casa. Per fortuna un figlio era a casa e ha fatto delle riprese con una videocamera, identificando bene gli assalitori: ma la polizia ne ha fermato uno e lo ha rilasciato il giorno dopo. Ora si stanno organizzando per avere videocamere anche nelle altre aziende.
Un’altra strana cena è stata in un ristorante con grandi sale: almeno 150 invitati per parte (per parte, perché gli uomini e i ragazzi fino direi dodici anni, in una sala, e le donne e i piccoli nell’altra). Mi ci aveva portato uno dei ragazzi più strani, ma il divertente è uno che ha studiato ingegneria a Palermo e ora ha una azienda che produce scaffalature e altro ed esporta anche in Israele.
Quanto al nostro gruppo, siamo rimasti in tre che hanno iniziato con me; poi sono arrivati danesi, inglesi, spagnoli (anzi il grosso gruppo è catalano), un’altra italiana, americani. Su quanti ne sono passati qualcuno più adulto c’è… ma siamo sempre all’età di studenti universitari.
Stamattina c’era una inglesina che era a Hebron solo per oggi, così l’ho accompagnata per la famigerata Johadah street, quella che ha le serrande chiuse (ma non chiuse così, chiuse con la fiamma ossidrica), e solo una scuola ebraica in funzione. Da lì siamo rientrati nel mercato con le solite visite. Ma poi avevamo appuntamento al “Palestinian prisoner’s society”: terribili storie di detenuti – con anche decenni di prigione -; stanno un mese col fermo prima di dovere dar conto, per cui ci sono ogni giorno arresti e rilasci per decorrenza. I bambini poi si possono arrestare a 12 anni!
Ora riscendo dalla terrazza dove stavano fumando una shisha davanti ad un cielo bellissimo con le stelle cadenti: è arrivata la notizia di due ragazzi fermati e pestati a Betlemme. Per fortuna c’erano due dei nostri, e gli hanno restituito i documenti, solo che hanno paura che succeda di nuovo. Oggi è l’anniversario della strage nella moschea ad opera di Baruch Goldstein – trenta morti e non si sa quanti feriti -; ma dopo la strage non viene punita la comunità ebraica, ma quella palestinese, a cui si vieta una parte della moschea, si continuano a chiudere i negozi. Pare che se ora non vediamo molta repressione è per via del ramadan.
Non ho mai raccontato della manifestazione di venerdì scorso: sono stato di nuovo a Nabi Saleh, dove c’è il villaggio con l’assedio. La novità di questa volta è stata la presenza di Israeliani, e non un paio come il venerdì precedente, ma almeno venti. Almeno loro, non avendo limiti a portarsi cose, sono arrivati con carta e pennarelli, nonché una tenda di quelle che usano in piazza a Tel Aviv; così la tenda è stata decorata con alcune scritte, la più bella delle quali era “non si può avere giustizia sociale con l’apartheid”. Verso le undici e mezzo il muezzin chiama alla preghiera; verso mezzogiorno escono e ci uniamo a loro nel corteo. Questa volta proviamo a scendere dalla strada di accesso, siamo un centinaio, il difficile è sempre tenere un comando, visto che i ragazzi del posto improvvisano; anche io esitavo quando hanno deciso di scendere in una specie di canalone, ma sapevano che se fossimo arrivati alla curva sarebbe partito un nutritissimo fuoco di lacrimogeni; così invece abbiamo ritardato un po’ l’attacco. Il lancio di lacrimogeni è partito mentre risalivamo sull’altro pendio; ma anche questa volta non è stato particolarmente grave, si sono accontentati di tenerci fermi dentro il paese, sempre a respirare un po’ della loro robaccia. Dicono che Israele ha comprato negli Usa milioni di lacrimogeni, se è così dovevano davvero fare schifo: io ho visto almeno i primi cinque tiri fare una parabola ma poi si sono involuti con un crollo a terra, ben lontano da noi; poi invece hanno aggiustato e le parabole erano da assedio. Capisco come sarà stanca la gente che se li vede più o meno a casa ogni settimana!
Sempre oggi, gli spagnoli hanno seguito un’incursione in una casa: una vecchietta da cui cercavano armi! E io ho discusso con quattro militari, anche loro con i mitra spianati in mezzo alla strada: sorvegliavano due che andavano al cimitero ebraico! Dopo le discussioni di rito sul fatto che il terrore lo seminano loro, li ho lasciati dicendo che se in quattro fanno la guardia a due, c’è un bel dire che la paga non gli basta!
Su Rai uno abbiamo visto un video non tanto male su Hebron: cercate “This is my land – Hebron”
Claudio
Quinta lettera dalla Palestina
I fatti degli ultimi giorni sono stati travolgenti. Per questo ritorno violento è chiaro che si deve risalire ai morti a Eilat; gli israeliani non possano lasciare un fatto come quello senza colpire nel mucchio, indiscriminatamente, e cercando di approfittarne per fare qualche controllo in più.
Stavo cominciando a scrivere, quando mi è arrivato l’invito ad andare a Sussia dove alcuni pastori hanno noie con il vicino insediamento di coloni: d’altronde è la solita solfa, gli israeliani arrivano, dissodano, arano, portano acqua, piantano vigne; che gliene frega di un po’ di famiglie che ci vivono con un altro tempo? Ma qual è il tempo, la corsa al lavoro e all’annullamento dei diritti, o quello meraviglioso del ritmo naturale? La notte sotto le stelle (e che stelle!), la semplicità dell’acqua dal pozzo, dei bisogni fatti in campagna, della condivisione del cibo; una grande tenda, con la parte bassa in muratura, che così serve da ripiano, per i vestiti, per il cibo e ogni altra necessità, e lo spazio grande che viene occupato una volta dalla cena e una volta dai materassini e coperte. Bellissimo esserci in Ramadan, tutti con l’attesa della cena alle sei e mezzo, del the e della frutta che scandiscono la serata, e poi la levata tutti insieme per la colazione: un po’ di avanzi della cena, ancora uva, e il loro formaggio, e sempre the a fiumi. Che di notte ci sia un letto è evidentemente un’invenzione nostra; tutti gli altri usano una coperta e da quando li hanno i materassini. Per cui io e i tre figli grandi abbiamo avuto la stuoia messa fuori sotto le stelle e davanti alle pecore. La mia compagna di ieri fa antropologia in Irlanda: ma questo è un trattato di antropologia sul campo: le stelle, le pecore, la famiglia e la condivisione…
Torniamo a qualche giorno fa, le manifestazioni del venerdì. Sono andato di nuovo a Nabi Saleh, la manifestazione più grossa, dove anche ora erano convenuti un gran numero di soldati. Anche oggi non c’è il posto di blocco all’entrata del paese, per cui almeno saliamo con calma, verso le dieci. La funzione religiosa del venerdì è proprio lunga, mi chiedo quanti proclami alla resistenza ci saranno, d’altronde almeno qui è quello di cui hanno bisogno. Partiamo; oggi uno striscione in arabo, attaccato su una specie di baldacchino; la strada sembra libera, ma saranno in attesa. Giù nel canalone, come l’altra volta, e ci lasciano scendere un bel po’; poi partono i candelotti per respingerci sulle nostre posizioni; compaiono sul lato destro del villaggio, e poi una pattuglia è anche dentro il villaggio, ci hanno tagliato in due; le case si riempiono di gas. Ma tanto il gas ha una durata breve, devi lasciarlo diradare; quando ne sparano tanti devi aspettare. Io mi sono trovato la strada chiusa perché tra due muri ne scoppiavano un casino. I miei compagni che sono corsi avanti si sono riempiti i polmoni; io ho aspettato che si diradassero e poi sono andato. Così anche per quelli sparati in mezzo ai due gruppi: i soldati hanno provato ad entrare in una stradina per poi scendere ai loro mezzi; ma la loro stradella era chiusa e così sono risaliti sparando come pazzi per poi entrare nella stradina successiva. Non riuscivo a capire cosa succedesse, cosa li avesse spinti a tornare indietro e a sparare come dannati e con le facce spaventate; finalmente riescono ad uscire, inseguiti da qualche sassata. Anche quelli sull’altro della strada sparano le loro granate di avvertimento, ma non vengono più avanti. Anche per questo venerdì è andata.
Mi chiedo anch’io, ma a cosa servono queste battaglie? Eppure bisogna essere lì, per capire che urlo alla vita sia: ci siamo, esistiamo, non ci schiaccerete né ci caccerete.
Poi mi offro per scendere a Sheik Jarrah, che è sulla strada per tornare a Hebron. Parto all’ora del “breakfast” le sei e un po’, con un pezzo di pizza e una bottiglia di plastica di acqua, tanto so che con il ramadan la famiglia che proteggiamo viene sempre con qualcosa per la cena. Il passaggio da Qalandia (il check point verso Gerusalemme) sembra un campo di battaglia: ci hanno soggiornato a migliaia, nell’attesa dell’ambitissimo accesso alla città e alla moschea. Ora che arrivo io c’è solo la sporcizia, e i soliti controlli penosi; quando si accorgono che sei italiano, fanno i finti gentili, ma intanto una decina di minuti sono passati . E quanta gente sarà stata respinta, solo per andare a pregare!
A Sheik Jarrah il vecchio divanetto è stato buttato via, dopo i lanci di escrementi; ora ci sono due letti discreti, e gli altri uno o due si va a turno nella casetta dove abbiamo anche i servizi. Io vado alla casetta fino alle tre e poi mi presento per i cambio; mi copro bene, e dormo, finchè mi sveglio con un salto e un urlo di dolore! ma non sono i nostri coloni pazzi, è un bel gattone da sembrare un pantera; un bel morso sul naso (l’unica parte libera che avevo) che mi ha fatto sanguinare per un bel dieci minuti!!! Quando mi hanno visto arrivare con il naso gonfio si è cominciato a raccontare che i coloni hanno anche addestrato i gatti!
E finalmente dopo un po’ di settimane che lo pensavo, decido di andare a Beit Ommar, che è il paese il cui “mayor” è stato a Ivrea per due anni, e che manda tanti saluti a Pierangelo e Rosa. Intanto i due del mio gruppo che dovevano raggiungermi, con la scusa di non sapere quale bus prendere non sono arrivati, e io mi ritrovo ad un Center for Justice and freedom, con due palestinesi molto in gamba e preparati, che mi spiegano che sono contrari al lancio delle pietre. Piano piano arrivano degli spagnoli, degli italiani: si preparano striscioni come “Gaza” in rosso e tutto sanguinante, “basta con i bombardamenti”. E intanto mi spiegano che lì si va fino a dove i soldati sbarrano la via con la solita scusa “military zone”; un giorno dicono che hanno deciso di fare una fascia di protezione intorno all’insediamento, togliendo terre a chi coltiva, e non ci vogliono più li. Arrivati al confronto con i militari, ci buttiamo a destra nel frutteto, e loro dietro per fermarci. Visto che non si può andare avanti, tutti seduti a terra. Poi cominciano a sollevarcie e a strattonarci.
E qui guardate la foto allegata. A un attivista palestinese viene rotto un braccio. Io rimango li con lui, poi mi sostituisce un volontario israeliano, che quindi rimane lui. Io vengo portato con gli altri: vediamo che il loro capo ha un’aria da SS, con il suo proclama, con cartina annessa “questa è zona militare, dovete sgombrare”. Non leggiamo il suo proclama, che non ha traduzione né araba né inglese; casini, spintonamenti; io sto davanti con tutti i discorsi soliti: perché togliete la terra, perché maltrattate la gente… fino a che l’SS dice: anche tu con noi!
Mani dietro la schiena, attaccate con cinghia durissima, occhi bendati, anche quelli senza assolutamente vedere niente, sali sul furgone, dove ce n’erano già due, non ci sto, o non mi piego abbastanza per starci; allora fuori dal furgone; poi sali su un altro furgone; poi decidono che è troppo comodo; giù dal furgone e vai a piedi; camminare a piedi bendato e con le mani dietro la schiena, su una strada sterrata, tutta curve; quindi solo a base di spintoni…. Non è stato molto bello… Vuoi acqua? No la vostra acqua no. Comunque arrivati su al loro cancello, c’è anche una soldatessa un po’ più gentile, mi chiede i documenti, “ma non li avete già presi?”, mi sistema la maglietta, che pendeva da tutte le parti. E finalmente il taglio della benda sugli occhi, e le mani? Quelle t’arrangi; ma poi mi tagliano anche quella cinghia. “E ora corri se no sparo”; ma vai affanculo! Invece di correre ero a cercare le mie cose: il passaporto, il cappello, gli occhiali, il telefono… ma il telefono non c’era più; torno dalla SS, “ma il mio telefono?” “ Sparisci se non vuoi di peggio”, e allora mi sono rassegnato…
Se mi sono spaventato? Qualche momento di apprensione. Qualche dubbio su cosa poteva succedere.
Ma era il militare quello con le corna spuntate: vedeva benissimo che non mi aveva fatto spaventare. “La prossima volta ti arresto subito!”, intanto ha provato a rimettermi le mani addosso, ma io ho tirato dritto.
A sera vengo accompagnato dal “mayor”: uomo impegnatissimo, una volta mi aveva risposto (su almeno 4 chiamate), ma rinviandomi subito al “breakfast” delle sei e mezzo, e poi ospitandomi per la notte. La sera aveva più tempo: prima il breakfast in una di queste serate di Ramadan, che vuol dire che un uomo di buona volontà ne invita tanti, sempre nell’ottica di un forma di beneficenza… Altra cosa che non so se l’ho già raccontato, in queste cene esiste una forma di profonda democrazia, ricchi o poveri tutti fanno la stessa cena. Poi torniamo a casa, rimette gli abiti tradizionali, e continuando a servire the intrattiene non so quanti gruppi, sempre sul problema dell’acqua. Raccontando che sono stato fermato, alza le spalle: capita sempre, lui ha un figlio in galera!
Domenica sembrava una giornata tranquilla, a parte la disperazione di cercare soldi nelle banche; col cavolo che una Mastercard funziona! Alla non so più quantesima banca e non so quanti km percorsi, ho trovato una Bank of Palestine attrezzata con una specie di bancomat, dove con Masterard, passaporto ecc. ti anticipano i tuoi soldi!
Per la sera siamo ad una manifestazione di solidarietà per Gaza; non una gran cosa, ma almeno c’è. Però ci arriva subito una chiamata, a causa di una invasione militare in un quartiere; si parla di almeno otto mezzi blindati e oltre quaranta uomini. Cerchiamo di aggirare lo sbarramento dei soldati usando un’altra strada, ma non c’è modo, ci fermiamo solo un po’ più vicino. I soldati avevano prima parlato di venti minuti, ma dopo tre ore erano ancora là, con donne che gridavano e soldati ignari. Sappiamo per certo che ci fu anche un’esplosione, avevano detto che dovevano fare saltare qualcosa, e la casa gliela hanno mezza distrutta, vetri e pezzi di arredamento dappertutto. Poi hanno cominciato a dire: “attenti state nelle case”, come se dovessero succedere altri scoppi, invece erano loro che cercavano il modo di andarsene via; e questa è la cosa che mi ha stupito di più: in un paese in cui tutti sembrano rassegnati, si è improvvisamente avviata una battaglia di strada; i ragazzi (qui chiamati shebab), che erano rimasti nascosti durante le operazioni, compaiono in strada con tutti i sassi del mondo; comincia una sassaiola contro i mezzi corazzati; per farsi strada devono comunque sparare i loro dannati lacrimogeni e noi che eravamo più in alto abbiamo visto benissimo che li tiravano orizzontali e non certo in alto; quando non ce la facevano più, hanno usato anche le bombe al fosforo, che rendono l’aria irrespirabile a grande distanza. Il risultato è stato di oltre quaranta feriti, tra intossicati e colpiti in modo diretto dai lacrimogeni e dalle famose pallottole ricoperte di gomma.
Il ricercato era appena rientrato dalla galera e probabilmente simpatizzante di Hamas, ma certamente molto più benvoluto dal popolo!
Claudio
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