di Mariolina Tentoni
A Smadar, israeliana, e Abir, palestinese, bambine che non hanno potuto crescere
Nei giorni precedenti la partenza, prevista per il 19 aprile, incombeva sull’Europa la nube delle ceneri islandesi. Aeroporti chiusi, voli cancellati, ansie e incertezze.
Infine si parte per Tel Aviv, i cieli del Mediterraneo risultano liberi.
In realtà su Israele da molto tempo grava una nube ben peggiore, che ottunde le coscienze, lede il senso di umanità, opprime le vite degli israeliani stessi: una fitta trama di ingiustizie, violenze, soprusi, umiliazioni inflitte ai palestinesi in nome della sicurezza.
Un viaggio prevedibilmente duro, perché dura e dolorosa è la realtà con cui entreremo in contatto.
La società israeliana è una società del controllo, permeata di paranoia, militarizzata. Ne abbiamo un primo sentore appena arrivati: Cecilia, la referente del gruppo, messa sotto torchio per mezz’ora da 3 poliziotti all’aeroporto; nel tragitto per Gerusalemme 2 posti di blocco e al secondo ispezione di un soldato che sale sul pullman, mitra spianato, e noi coi passaporti in mano.
E meno male che il pullman ha la targa gialla israeliana, le auto palestinesi con targa bianca e verde vengono normalmente bloccate per molto tempo.
Non ci sono attentati, non si spara ma il conflitto è palese e si manifesta ovunque.
La prima visita è alla sede dell’ONU, l’OCHA, a Gerusalemme est, e il funzionario ci illustra, cartine e foto alla mano, la criticità della situazione e le varie forme di illegalità: la cartina a pelle di leopardo, quello che dovrebbe essere il territorio dello stato palestinese è disseminato di colonie, non c’è più un territorio con una sua continuità, perché possa esserci uno stato; le closures, le chiusure e i blocchi delle e nelle città palestinesi da parte degli insediamenti dei coloni; il muro e il furto di terre; le strade solo per i coloni; il furto di case a Gerusalemme est.
Le colonie, come i tentacoli di una piovra, mangiano la terra palestinese, stringono di assedio i villaggi e le città palestinesi e ne soffocano la vita e continuano a sorgere e a espandersi; nel viaggio ogni tanto vediamo gli avamposti , le prime roulottes, a cui se ne aggiungeranno altre, poi qualche prefabbricato e nel giro di qualche anno là dove erano uliveti, campi o boschi, verrà costruita una città di centinaia di case, una nuova colonia, un nuovo insediamento; gli insediamenti sono tutti illegali:
nei territori occupati e a Gerusalemme est ci sono 500.000 coloni.
Dove si forma una colonia arriva l’esercito; l’illegalità provoca senso di insicurezza e il ricorso alla forza: la militarizzazione del territorio, gli onnipresenti blocchi stradali, il muro, nuove forme di illegalità alla ricerca di una sicurezza, che in questo modo si allontana sempre di più.
Il muro, che è stato eretto, non su quella che dovrebbe essere la linea di confine tra i 2 stati, la green line ma sul territorio palestinese, senza alcuna valutazione di impatto ambientale, è la forma più oscena di recinzione. Il muro della vergogna, onnipresente, è furto di terra, distruzione di ulivi e di case, crea apartheid: non separa solo gli israeliani dai palestinesi, separa i contadini dai loro campi e dai loro uliveti, i commercianti dalle loro botteghe, i bambini dalle loro scuole, un villaggio palestinese da un altro, una famiglia da un’altra.
Conseguenza della colonizzazione pervasiva dei territori occupati e della ossessione della sicurezza, è la costruzione di molte autostrade ad uso esclusivo dei coloni e delle auto con targhe israeliane; gli accessi dai villaggi palestinesi sono sbarrati da blocchi di cemento, cumuli di terra, rotoli di filo spinato. I palestinesi sono costretti a lunghi giri; per ovviare alle enormi perdite di tempo costruiscono dei tunnel ma anche questi sono controllati dall’esercito israeliano e chiusi di notte. Vige una sorta di coprifuoco.
Un’altra forma di sopruso messa in atto dal governo israeliano ai danni dei palestinesi è la demolizione di case: attualmente ci sono 1500 ordini di demolizione. Vige per i palestinesi il divieto di costruzione e anche di riparazione; le case che vengono costruite vengono demolite: ogni anno vengono demolite 100 case.
E poi il furto delle case.
In due quartieri di Gerusalemme est, dove abitano gli arabi, a Silwan al Bustan e a Sheik Jarrah, ci sono ordini di esproprio ed evacuazione per creare insediamenti, è chiaro il disegno di de-arabizzare e giudaizzare Gerusalemme ( e tutta la West bank), come ci dicono alcuni israeliani. Le motivazioni sono sempre pretestuose e fantasiose: nel primo caso dicono che in quella zona c’era la città di Davide (fanno scavi, vogliono creare un parco archeologico dei Re) e quindi… per diritto divino quelle case spettano agli ebrei che vengono dai quattro angoli della terra; nel secondo caso studenti venuti dagli USA, occupano le case costruite dall’agenzia per i rifugiati palestinesi dell’ONU e abitate da 60 anni dai profughi del 1948, rivendicando il possesso della terra, su cui sono costruite le case, in base a documenti del tempo degli ottomani, nel 1830.
Arrivano di notte, accompagnati dall’esercito e buttano fuori intere famiglie con vecchie e bambini. Chissà perché mi viene in mente la favola del lupo e dell’agnello.
All’interno della città vecchia, nel cuore del quartiere arabo un rabbino ultraortodosso ha “scoperto” il piccolo muro del pianto e lì, dove c’è una corte e l’unico accesso a una casa araba, vogliono costruire una sinagoga per le donne.
In uno di questi quartieri, Sheik Jarrah, andiamo, facendo una camminata sotto il sole cocente; è il nostro primo incontro con una forma di resistenza non violenta palestinese. Ci accolgono delle donne, una con un bambino bello e arrabbiato, che sembra avercela con tutti gli estranei, piange e la madre lo consola con parole e gesti teneri; c’è una vecchia dal volto scolpito dal tempo e un’altra donna che appare molto forte e decisa, è la portavoce; ci racconta la loro storia, ci dice che loro non se ne vanno, restano qui in un’ala della casa occupata dai giovani coloni; dice che questa è la loro resistenza, la loro “forma di pace e resistenza”. Ci offrono il caffè col cardamomo in un piccolo giardino con le rose. Ci chiedono, come tutti quelli che incontriamo, di parlare di loro al nostro ritorno in Italia, fare conoscere la loro realtà.
Le case vicine sono già state espropriate, con l’espulsione di 53 persone, e sono state giudaizzate; su una di queste, con grande arroganza, è stata posta una menorah e una scritta in ebraico, “qui siamo tornati e qui resteremo”.
Questo furto di case è stato stigmatizzato e condannato anche da personalità della società israeliana, David Grossman, tra gli altri, che ha parlato di Israele come di una pianta carnivora che divora gli altri intorno a sé e sta divorando sé stessa.
La realtà della resistenza popolare pacifica, relativamente recente, autonoma dalle varie forze politiche, è molto diffusa e si va estendendo nei territori occupati.
Il simbolo di questa resistenza è un ulivo a cui un uomo è abbracciato e incatenato, che si trova in un murale sulla scuola di Bil’in, un villaggio tra Gerusalemme e Ramallah. Qui da 8 anni la popolazione ogni venerdì fa una manifestazione non violenta davanti al muro, costituito da un fossato e una tripla recinzione, che ha sottratto ai contadini una larga striscia della loro terra; la corte di giustizia israeliana, a cui gli abitanti di Bil’in si sono appellati, ha dato loro ragione e l’esercito avrebbe dovuto fare arretrare il muro di 1 km, ma tutto rimane come prima.
La loro protesta continua in modo non violento; un loro leader, Abdallah abu Rahma, ha studiato il pensiero di Gandhi, e per conoscerlo meglio è stato anche in India; attualmente, come altri resistenti palestinesi, alcuni giovanissimi, è nelle carceri israeliane.
L’esercito spesso risponde a questa protesta con la forza e la violenza: sortite al di là del muro, attacchi ai manifestanti a suon di manganelli e lacrimogeni , uno dei quali nell’aprile del 2009 ha ucciso un ragazzo di 30 anni, Bassem abu Rahma.
Questi prodi soldati li vediamo in azione venerdì 23, quando partecipiamo alla manifestazione, fermandoci, per lo più, a una certa distanza dal muro; fanno una sortita, sparano lacrimogeni e 2 ragazzi, un israeliano e un italiano rimangono feriti; sparano lacrimogeni anche nell’uliveto, dove ci sono solo una donna- che ha in mano come unica arma un mazzetto di steli di un’erba che attenua gli effetti dei lacrimogeni- e alcuni bambini, che tirano sassi in direzione del recinto; questi soldati, armati di tutto punto e protetti dal recinto, evidentemente si sentono minacciati e hanno paura di questi ragazzini di 7-8 anni.
La manifestazione di centinaia di persone conclude la quinta conferenza internazionale sulla resistenza popolare non violenta, i cui lavori sono stati aperti da Luisa Morgantini e dal primo ministro dell’Autorità palestinese; partecipano numerosi pacifisti europei, canadesi, israeliani, i comitati popolari di molti villaggi, ma anche rappresentanti dei consolati, tra cui quello italiano.
Nel pomeriggio di venerdì, c’è un’altra manifestazione contro la politica di espropri di case a Gerusalemme, a Sheik Jarrah; qui ci sono solo alcune donne palestinesi, gli israeliani invece sono qualche centinaio, soprattutto giovani, molto vivaci e combattivi, che con i loro tamburi e fischietti ritmano slogan contro l’occupazione, contro il muro dell’ apartheid; ci sono le donne in nero, la giornalista Amira Haas, Avraham Burg, Rami Elahnan, un amico, membro autorevole dei Parents circle, un’associazione di israeliani e palestinesi, che hanno perso figli o parenti nel conflitto; Rami ci dice che questa forma di resistenza interna alla società israeliana va crescendo, di venerdì in venerdì, ed è uno spiraglio e un piccolo segno di cambiamento; ci sono anche alcuni religiosi che protestano contro l’ingiustizia; io scambio qualche frase con una signora: mi dice che viene da Tel Aviv, che si sente di appartenere ad Israele e proprio in nome di questo è qui a protestare col suo cartello scritto in ebraico.
“Piccolo segno di cambiamento” certo, perché in Israele prevale di gran misura l’arroganza e il razzismo dei coloni, ne vediamo alcuni girare armati col mitra a tracolla; sono diffuse l’indifferenza e la negazione dei palestinesi, che restano invisibili con le loro vite segnate dalla discriminazione, dall’arbitrio e dal sopruso;
e per 7 giorni ci muoviamo in questa realtà. Il muro e i blocchi ovunque, i campi profughi, sovraffollati ( a Balata, il più grande, sorto nel 1949, vivono 25.000 persone su 1 kmq) e senza risorse: gli abitanti sono costretti a sopravvivere con gli aiuti dell’UNRWA,o passare clandestinamente in Israele per cercare un lavoro, sottoponendosi ai rischi di violenze e arresti; sentiamo i racconti di donne e uomini, tocchiamo con mano la loro umiliazione ma anche la loro tenacia e voglia di vivere, la loro esigenza di giustizia e di pace, una pace giusta.
Fra le tante realtà incontrate due sono emblematiche: la valle del Giordano ed Hebron.
La Valle del Giordano è un esempio di come gli israeliani hanno fatto a far fiorire il deserto, come recita uno dei miti fondatori di Israele.
La valle è ricca di acqua ma il paesaggio che attraversiamo è bizzarro. Le terre che vanno dal fiume all’autostrada, che percorriamo, sono aride e brulle, ogni tanto la guida ci segnala il volo di un’aquila: è territorio palestinese; sulla sinistra ci sono coltivazioni estese di palme, di Kiwi, vigne, un verde rigoglioso: è la parte israeliana.
Tutta la valle, assegnata dall’Onu alla Palestina, è sotto il controllo israeliano, e il governo d’Israele ha dichiarato quasi la metà del territorio zona militare, una parte della valle è soggetta a vincoli di protezione ambientale, solo il 6% è attualmente lasciato ai palestinesi.
E’ evidente la politica di de-arabizzazione e giudaizzazione.
Le terre requisite dall’esercito vengono date ai coloni israeliani, che le coltivano e vi costruiscono i loro insediamenti, che occupano praticamente metà di tutto il territorio; qui i coloni possono scavare i pozzi alla profondità di 800 m. Lo sfruttamento intensivo delle risorse idriche ha provocato l’impoverimento del fiume e l’arretramento delle rive del Giordano e del Mar Morto.
I palestinesi non hanno il permesso di scavare pozzi e, se lo ottengono, possono arrivare solo alla profondità di 100 m; quindi l’approvigionamento idrico anche per usi domestici è problematico e difficoltoso. Mentre i coloni hanno a disposizione 400 litri di acqua al giorno, i palestinesi ne hanno solo 30.
Non meraviglia che l’ 80% dei legittimi, antichi residenti abbia lasciato la valle.
Per spingere anche quelli rimasti ad andare via, le autorità negano loro il permesso di costruire nuove case; l’esercito distrugge le case esistenti, che è proibito ricostruire e riparare. Oltre all’acqua, viene loro negata la fornitura di energia elettrica.
Le vessazioni arrivano al punto che gli animali dei palestinesi, che sconfinano nei territori controllati dagli israeliani, vengono sequestrati e tenuti in appositi recinti, e i proprietari devono pagare una sorta di tassa giornaliera per il soggiorno.
Anche qui i palestinesi resistono e hanno formato dei comitati di resistenza pacifica. Quando l’esercito israeliano demolisce una casa, la ricostruiscono, ma hanno imparato a usare mattoni fabbricati impastando paglia con la terra cruda; hanno costruito una scuola per i bambini della valle, che però devono fare i doppi turni; un gruppo di donne ha costruito una strada; hanno impiantato un’azienda agricola in un terreno, miracolosamente sottratto alla requisizione da parte degli israeliani, perché si sono conservati i documenti di proprietà risalenti all’epoca degli ottomani e il pozzo è stato scavato al tempo de l governo giordano. L’azienda agricola, Holy land, gestita da una cooperativa, dà lavoro a diversi uomini e produce pomodori ciliegini, che vengono venduti in Europa.
Per accedere al mercato europeo, devono utilizzare una compagnia di esportazione israeliana, perché per i contadini palestinesi è praticamente impossibile commercializzare i loro prodotti al di fuori del mercato locale; i loro veicoli infatti possono essere fermati ai posti di blocco per ore e ore, anche per giornate intere, mentre i coloni possono far arrivare in giornata i loro prodotti in Europa, utilizzando le autostrade, che consentono loro di raggiungere l’aeroporto in poche ore.
Qui, come altrove, godiamo dell’ospitalità palestinese e gustiamo il miglior pranzo di tutto il viaggio nel villaggio di Fathy, il coordinatore dei comitati popolari, nostra guida nella valle, seduti all’aperto con davanti a noi una dolce collina coperta di uliveti. Il mussakhan è ottimo: su uno strato di pane arabo, cotto sui sassi e coperto da molto ottimo olio, pollo alla brace con mandorle tostate,condito con una salsa molto liquida- in cui ci sono cipolla e noci-, e una spolverata di summaco, una spezia di colore violaceo; è naturale e anche divertente mangiare come loro con le mani; alla fine ci portano, con delle brocche, l’acqua per lavarci queste mani cosi unte.
Mangiano con noi gli anziani del villaggio, e i ragazzi servono il pranzo; le donne, che hanno cucinato, rimangono in casa, dove solo noi donne, prima di ripartire, andiamo a ringraziarle.
Ma non è solo del mondo arabo conservatore questa separazione tra uomini e donne.
In Israele, che si vanta di essere un paese moderno, che aspira a entrare in Europa, i religiosi sono riusciti ad ottenere che in molti autobus le donne si siedano e stiano in un settore apposito, dietro, come i negri in America durante la segregazione razziale; ed è capitato che le donne, che non si adeguavano, venissero insultate e malmenate; questo non succede solo a Gerusalemme ma anche nella più laica Tel Aviv, dove un autobus, che serve un quartiere abitato da religiosi, ha adottato questa regola.
Alla fine della giornata andiamo a vedere il tramonto: dalla montagna una vista stupenda sul deserto, un senso di infinito, nella luce rosata un susseguirsi di monti, valloni, wadi: una bellezza sublime; vado a ritrovare un momento di solitudine e silenzio; l’esperienza della valle del Giordano con le sue emozioni e i suoi pensieri rimane presente ma depurata.
E poi Hebron. L’abominio di Hebron.
La visitiamo l’ultimo giorno, prima del ritorno in Italia.
Una città sotto occupazione, anche se giuridicamente sotto l’autorità palestinese.
Per accedere al centro della città antica, bellissimo, dobbiamo passare attraverso un posto di blocco, soldato israeliano col mitra imbracciato, tornelli, addirittura 3.
E’ troppo. E’ per me emotivamente intollerabile, e penso che sia umanamente intollerabile vivere in questa situazione. Mi sento il pianto dentro.
Percorriamo la strada del mercato deserta, una città fantasma, molte case vuote, sulle porte delle botteghe chiuse la stella di Davide disegnata dai coloni; nella via principale i negozi apriranno dopo, quando si sparge la voce della nostra presenza; in alto, a proteggere i negozianti e i passanti, le reti che i palestinesi hanno messo lungo tutta la via per trattenere l’immondizia, i rifiuti, gli oggetti più disparati, anche pesanti, che i coloni israeliani abitanti nei piani alti delle case gettano dalle finestre; arrivano a gettare anche escrementi.
Mi sento offesa e ferita nella mia umanità.
Penso a un passo di La tregua di Primo Levi, là dove racconta che il soldato dell’esercito sovietico che arriva ad Aushwitz e vede i prigionieri sopravvissuti , vede in che condizioni sono ridotti e prova un senso di vergogna; vergogna per quello che degli esseri umani sono capaci di fare a degli altri esseri umani.
Nel cuore della città araba, antica di 5500 anni, si sono insediati gli israeliani, 5 colonie con 400 coloni e 1500 soldati israeliani solo in città.
Questo ha comportato espulsione di palestinesi dalle loro case, distruzione di case antiche, obbrobri edilizi, dovuti all’aggiunta di uno o più piani su case di valore storico e artistico; il suq di una città, che viveva di un commercio fiorente, occupato dai coloni o vuoto, con negozi sigillati per ordine militare; libero accesso solo per i coloni alla moschea di Abramo, a cui prima tutti avevano 7 accessi; installazione di videocamere agli angoli delle vie; chiusura delle strade: Shuad street, il cuore della città vecchia e altre vie, che congiungono le colonie, precluse ai palestinesi; 101 posti di blocco solo all’interno della città.
Non è possibile muoversi per i palestinesi , andare a scuola, al proprio lavoro, in moschea, fare la spesa, andare dal medico, trasportare il cadavere di un congiunto, senza superare vari posti di blocco; per esempio il sindaco, per andare a pregare, deve attraversare 7 posti di blocco. E il posto di blocco vuol dire perquisizioni, anche delle cartelle dei bambini, vuol dire essere trattenuti per un tempo variabile ad arbitrio dei militari o vedersi negato il permesso di passare ( accade che i ragazzi facciano lezione in strada ). Uno spostamento da un punto all’altro del centro, che prima richiedeva 4’ in auto, adesso comporta una circonvoluzione di 12 Km.
Il risultato è l’abbandono della città, delle case e dei negozi.
Per ovviare a questo degrado l’Autorità Palestinese sovvenziona i negozianti, perché tengano aperti i loro commerci e sono offerte facilitazioni ai cittadini che ritornano ad abitare nel centro storico, nelle case antiche restaurate.
Si è costituito alcuni anni fa’ l’ Hebron rehabilitation committee, un Comitato per il recupero del patrimonio artistico della città, che opera con il sostegno finanziario del governo spagnolo. Dal 1996 sono state restaurate 900 case distrutte dall’esercito israeliano durante l’Intifada. Le case recuperate, che datano dal XVI secolo, sono in pietra ocra, con finestre a bifora, di grande fascino.
Che in questa situazione i palestinesi resistano, a Hebron come a Gerusalemme, nei villaggi della Cisgiordania o nel campo profughi di Balata, è incredibile, e soprattutto è ammirevole il lavoro sociale e culturale che portano avanti. Ovunque sono sorti centri culturali, e centri antiviolenza per le donne, le cui attività sono molteplici: il sostegno alle vedove, la terapia alle donne e ai bambini che hanno subito traumi per la guerra, la cura dell’educazione dei bambini e della formazione degli adolescenti, i corsi di formazione per le donne, perché possano essere economicamente indipendenti, sia attraverso il recupero di saperi tradizionali come l’arte del ricamo, dove i colori e le forme hanno un significato simbolico, sia attraverso corsi di informatica. Il più importante centro in difesa dei diritti dei palestinesi residenti in Israele si trova ad Haifa, è il Mossawa, uguaglianza, che promuove una rete di centri culturali comunitari auto-organizzati, analizza le leggi discriminatorie vigenti in Israele, denuncia e cerca di contrastare la discriminazione economica ( solo il 4% del bilancio viene destinato alle comunità palestinesi) e culturale.
Infine le donne che incontriamo, belle colte, forti: Huda a Gerusalemme, Rawda a Nablus, Nayla a Ramallah, col capo scoperto, alcune con una storia tragica alle spalle di lotta politica, detenzione nelle prigioni israeliane, lutti ; adesso organizzano e dirigono centri culturali e/o centri di promozione, sostegno e terapia per le donne, centri antiviolenza come il Mewar, sorto a Beit Saour, vicino a Betlemme, per interessamento di Luisa Morgantini e miracolosamente finanziato dall’Italia.
Incontriamo anche donne israeliane, che lottano come le e i palestinesi contro l’occupazione, consapevoli che la violenza e l’ingiustizia genera violenza e morte, vediamo donne dei machsom whatch, che fanno dei presidi ai posti di blocco per controllare l’operato dei soldati israeliani, donne di un centro femminista ad Haifa, Isha l’Isha e Nurit Peled che ci aiuta a capire qualcosa di più della realtà israeliana.
Nurit è una donna coraggiosa e stupenda, che ha perso una figlia di 14 anni in un attentato suicida, fa parte delle Donne in nero, è cofondatrice del Tribunale Russell per la Palestina; docente universitaria, ha scritto un libro sul razzismo nei libri di testo israeliani. I soldati israeliani- ci dice- sono il prodotto dell’educazione, oltre che della propaganda dei media. Israele è un paese di immigrati, che si creano un’identità coalizzandosi contro gli arabi, il nemico; i palestinesi come persone reali, la loro condizione di vita reale sono sconosciute, circolano anche attraverso i libri di testo gli stereotipi, che alimentano il razzismo e la paura.
Ne risulta un Israele malato, e i mali del sionismo vengono denunciati anche da Avraham Burg in Sconfiggere Hitler.
Un elemento costitutivo della realtà israeliana è il riferimento costante e l’uso politico della shoah. I soldati devono combattere e uccidere in Palestina o in Libano, perché “l’alternativa è Treblinka” come ha detto Begin nel 1982.
L’identità israeliana è un’identità della shoah, i bambini vengono traumatizzati con immagini tremende, il viaggio ad Auschwitz è una sorta di rito di passaggio per gli studenti prima della maturità.
Burg sostiene che Israele è ancora prigioniero di Hitler, rivolto al passato; c’è non solo il culto ma anche l’ossessione della memoria; ne risulta un paese dove vige la paranoia, sono tutti contro di noi, una nazione che si regge sulla guerra.
Burg ripropone gli ideali di umanesimo e di universalismo che erano presenti in pensatori come Martin Buber e che sono stati e sono oggi traditi.
Oggi Israele è un paese in cui dominano i militari, un paese in cui i laici sono una minoranza e hanno sempre più potere gli ultraortodossi, i fondamentalisti che sono mossi da un messianismo politico, che vogliono imporre.
Trovano nella bibbia un fondamento alla politica di espansione, alla giudeizzazione e de-arabizzazione della Palestina, terra del popolo eletto, Eretz Israel; così come sulla bibbia fondano il diritto al ritorno, che nega la diaspora, e la costruzione della grande Israele.
In questo modo il popolo palestinese è un popolo negato; uno dei miti fondanti di Israele era una terra senza un popolo per un popolo senza terra; ancora oggi persiste questa negazione e la Palestina è uno stato negato.
Un viaggio in Palestina e in Israele è un viaggio in una terra bella e lacerata da violenza e oppressione, umiliazione e paura, e la speranza che ci possa essere una pace giusta, che ci possano essere 2 popoli e 2 stati, appare molto lontana.
Mahmud Darwish nella sua poesia testamento Pensa agli altri, termina con questi versi:
Mentre pensi agli altri lontani, pensa a te stesso
(Dì: magari fossi una candela nelle tenebre!)
Le candele che brillano nelle tenebre sono le esperienze nate dal riconoscimento reciproco, le esperienze di lotta condivisa, i gruppi misti di palestinesi ed israeliani, come i Combattenti per la pace, il Parents circle, composto da persone che hanno patito un lutto e hanno appreso la via della riconciliazione attraverso il riconoscimento e la condivisione del dolore dell’altro; i refusnik che rifiutano di prestare servizio militare nella Palestina occupata; i comitati per la ricostruzione delle case, le Donne in nero, tutti quelli e quelle che non sono più disposte ad essere complici di una politica che crea ingiustizia, dolore e alimenta la violenza; sono i palestinesi che resistono senza armi alla violenza, affermando il loro diritto alla vita e alla giustizia, il diritto alla loro cultura, alla poesia e alla bellezza.
Il lavoro culturale è costruzione di pace, perché, come dice Simon Veil, il contrario della guerra non è la pace ma il pensiero.
La gratitudine verso di loro ci responsabilizza a fare lo stesso lavoro e a cercare di essere anche noi candele nelle tenebre.
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ar ticolo molto interessante! Condivido e apprezzo la grande sensibilità e l’immenso dolore. Vorrei informazioni sulle possibilità di fare esperienze di volontariato in quelle zone. Grazie e molti auguri! Patrizia Chiarappa