Arriviamo a Deishe Camp alle 5 del mattino, siamo pure stati respinti ad un check point secondario dove pensavamo di fare prima per passare; invece al soldato non garbava, cosi’ abbiamo girato il pulmino e siamo passati altrove. Al Centro Culturale si raccoglie la memoria storica del campo profughi che e’ li’ dal 1948. Le tende sono diventate casucce a piu’ piani, ma nient’altro e’ mutato: i suoi abitanti aspettano ancora il ritorno al loro villaggio, gli sono rimaste le chiavi di case non piu’ esistenti ed il nome del villaggio stesso; non hanno neppure diritto a tornare a vederlo il loro villaggio.
L’amico Morad, che ci fara’ da guida ed interprete al nostro risveglio ci dice che quando suo padre e’ morto un anno fa, ha visto il villaggio nei suoi occhi. Dobbiamo a Morad il primo autorevole incontro della giornata . Ci porta da suo zio Abu Khalil, un sereno e severo leader non solo di Deishe, ma forse di Betlemme come esponente di Al Fatah. Si e’ fatto 11 anni di prigione per motivi politici, ma dice “Non odiamo gli israeliani, sappiamo che quando un popolo resiste all’occupazione , tutti fanno cosi’. Piuttosto diciamo: cessi l’occupazione, viviamo in pace, riconosciamoci come vicini. Abbiamo vissuto a lungo con gli ebrei, e non vogliamo pagare noi il prezzo delle questioni che gli europei hanno avuto con loro. Siamo ancora qui a sperare nei popoli d’Europa. A noi interessa il rispetto dei nostril diritti: vogliamo muoverci, lavorare, viaggiare. Lo vogliamo per i nostri figli.
Sulla via verso la sede del Centro del dialogo interreligioso Al Liqa, giriamo intorno al muro che racchiude la presunta tomba di Rachele ed esclude tutto cio’ che gli sta intorno, anche il negozio di Anastas, un tempo assai frequentato dai turisti, ormai rarissimi, da quando in un solo pomeriggio si e’ vista ingabbiare con casa e famiglia in un incubo di muro alto 10 metri e a distanza ravvicinata . Nella sede di Al Liqa incontriamo il suo direttore Geries Saad Khoury, cristiano melkita; con lui c’incontrano il vice dr Darwish, musulmano, ed il prof. Salaam, docente di storia all’Universita’ di Betlemme. “Quando comincerete a parlare di diritti umani a proposito di noi palestinesi?”. Ieri Israele e Usa sono impazziti per il riconoscimento di Palestina quale membro a pieno titolo dell’Unesco . “E allora si vergognino di continuare a dire sciocchezze sui diritti umani e sulla democrazie da esportare nel mondo. Ci dovrebbe essere un limite nel dire certe cose senza vergognarsi. Continuano a vendere bugie al mondo . E voi ci credete. Noi riconosciamo Israele e chiediamo solo di vivere in pace. Loro ci rispondono sradicando i nostri olivi e rubando la nostra terra. Per questo ci voleva il discorso di Abu Mazen all’ONU: si tratta di prendere atto che la Palestina esiste perche’ esistono i campi profughi nei quali tutti noi viviamo ed esiste un’occupazione militare su un intero popolo, unico caso al mondo oggi.
Ci fermiamo a riflettere sulle cose viste e sentite. Siamo sorpresi dalla coerente pratica della nonviolenza ribadita da tutti gli interlocutori incontrati, sanno usare anche la creativita’ come dimostrano I murales che scrivono la storia sulle imponenti superfici del muro di separazione. Ci sorprende l’instancabile disponibilita’ a raccontare coltivando con fedelta’ e precisione la memoria dei fatti . dei luoghi e delle persone. Ci stupisce la capacita’ di organizzare la vita sociale sotto occupazione, avendo cura di fare cose normali, come nelle scuole per l’infanzia aperte nel campo di Deishe, quando niente qui e’ normale e la regola dell’occupante e’ l’arbitrarieta’. Nutrire ancora oggi la speranza per il domani ci appare un gesto di grande forza morale, un comportamento coraggioso frutto di una pazienza raffinata dalla sopportazione , senza resa.
Se non dimenticati da Dio certo da Ramallah, ecco i poveri di Artas, villaggio palestinese musulmano, costruito sul versante di un canyon che a Grazia ricorda Matera. Ci arriviamo per strade sterrate, ripide, tortuose. Dal fondo del burrone il fumo di un rogo per incenerire qualcosa d’ingombrante aggiunge odore ad altri odori, eppure nella valletta c’e’ la sola risorsa di Artas: gli orti e le serre delle sue verdure. Siamo li’ per portare al piccolo Mustafa’ i soldi che gli pagheranno l’operazione agli occhi in modo che possa tornare a scuola. Alla scuola per adesso ci andiamo noi, accompagnati dalla maestra Abir e da alcuni anziani del villaggio animatamente preoccupati delle condizioni dell’edificio. Da Ramallah nessun aiuto, la’ sono prioritari gli investimenti per farla bella , capitale degna di uno stato nascente, che ha nella dignita’ e nel coraggio di resistere la sua unica ricchezza. La scuola di Artas puo’ attendere. Aule piccole, sporche, arredate approssimativamente. Ospitano 400 allievi a gruppi di 25/30. Dicono che i ragazzi stessi non ci vogliono stare. Noi lasciamo un po’ di cancelleria e lasciamo il gruppo di anziani riconoscenti, ma delusi: forse aspettavano una delegazione piu’ autorevole per finanziare i lavori. Chissa’che non ci torniamo con un progetto sostenuto da qualche istituzione italiana.
Pesa su noi italiani il giudizio piu’ volte ripetuto dalle persone incontrate sulla impresentabilita’ del nostro governo. C’e’ umiliazione e voglia di riscatto. C’e’ molto da imparare dagli esempi di dignita’ che oggi ci hanno fornito gli amici palestinesi.
Il gruppo di Tutti a raccolta 2011, per contatti 00972543176361
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