Città senza piazza

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admin | October 5th, 2011 – 2:25 pm

Mi sto ri-leggendo uno dei testi fondamentali per capire cos’è successo a Gerusalemme, in questi ultimi, cruciali decenni. Lo ha scritto uno dei primi gerosolimitani israeliani che ho intervistato, poco dopo essere arrivata in città, oltre otto anni fa. Meron Benvenisti non è solo un uomo che ha amato questo luogo. E’ soprattutto un uomo per il quale gli abitanti di questa città hanno tutti un viso. Ci sono, esistono, e hanno lasciato traccia nella lunga storia di Gerusalemme. Benvenisti è stato il vicesindaco del sindaco israeliano più famoso, Teddy Kollek, il sindaco della teoria del mosaico, colui che ha pensato e realizzato l’espansione demografica israeliana nelle aree ancora non edificate di Gerusalemme est.

Nel suo City of Stone, Benvenisti spiega com’è cambiata Gerusalemme, dal 1967 in poi.

“Political decision makers have set as their own objective the wholesale alteration of the image of Jerusalem, and they have succeeded in fashioning it into an environment consonant with the desires of the Jewish collective.  In so doing, they have altered Jerusalem’s character to such a degree that it is no longer the city that has for generations been etched on the imagination and consciousness of hundres of millions of people. The character of this once-distinctive urban entity has been so blurred that those entering the city do not feel they have reached their destination: the compact city, perched on a hilltop and bodered on all sides by deep valleys, its houses and walls composing a single block, standing out from the surrounding pastoral scene. That city is no more.”

Non è nostalgico, Benvenisti, in questa descrizione. Anche se può apparirlo, a una prima, superficiale lettura. Benvenisti pone un problema che mette assieme la concezione urbanistica di Gerusalemme con il posto che nella città hanno i suoi abitanti. Tutti i suoi abitanti, israeliani e palestinesi. L’espansione demografica israeliana degli ultimi decenni (l’esempio dell’insediamento di Gilo e delle 1100 unità abitative approvate dal ministero dell’interno è solo l’ultimo evento registrato dalla cronaca) ha cambiato inesorabilmente il senso della città. Una città, per esempio, in cui è difficile – se non impossibile – pensare a un centro, a un fulcro. A una piazza. Una piazza che non sia religiosa, ma laica, civile, condivisa.

Persino la Città Vecchia – centro e fulcro par excellence – è diventata, con gli anni, terreno di pastura per i pellegrini e i turisti. Luogo altro dallo svolgersi della vita vera, nonostante – dentro le antiche Mura di Solimano – vi siano ancora ritmi quotidiani, tradizionali, antichi.   La distesa ormai enorme di palazzi, tutti bianchi, in gran parte senza grandi aspirazioni di carattere architettonico, chiusi in una dimensione da dormitorio e periferia anonima, ha cambiato non solo l’aspetto estetico della città.

Città non più iconica, come quella che tutto d’un tratto scorgevano i pellegrini dell’Ottocento, gli orientalisti, gli europei colti (e poco attenti alle umane sorti degli abitanti). Di quella città, immortalata in questa foto conservata alla Library of Congress e descritta quasi con le stesse parole usate da Benvenisti anche nell’Ottocento, non rimane nulla. Se non la cartolina. Ma non è più il polo centripeto che attirava i villaggi un tempo palestinesi della cintura, vera e propria riserva di cibo per la città, ora tutti inglobati nei confini del municipio di Gerusalemme e dei quartieri della periferia.

L’arrivo a Gerusalemme, da Tel Aviv, è l’arrivo attraverso un corridoio. Soprattutto se si prende l’autostrada 443 che corre dentro la Cisgiordania ma che ai palestinesi è consentito percorrere per soli circa 30 chilometri. Dentro un corridoio fatto da un’autostrada a tratti chiusa da muri, a destra e a sinistra. E quando non sono muri sono reticolati. C’è un ricordo, che sale alla gola. L’arrivo a Berlino Ovest, partendo dall’allora Germania occidentale, da Amburgo, percorrendo quelle centinaia di chilometri di Germania est su di un treno che non fermava alle stazioni, ma le vedeva solamente scorrere come se quel panorama fosse semplicemente il fondale di un viaggio da incubo. Un treno chiuso, che arrivava poi, di sera, in una Berlino illuminata a giorno, tra binari, scambi, muri. Fine del viaggio. Willkommen, benvenuti nell’isola.

Era il 1989, prima della caduta del Muro, e Berlino ovest era un’affascinante isola, un recinto in cui razzolare era bello e vivace. Il ricordo, però, non è di quelli che lasciano un bel sapore in bocca. La Berlino della vivacità culturale non era un luogo dell’anima. Era lo specchio costante, senza sosta, di una situazione intollerabile. Anche quando, seduti all’affascinante  Martin-Gropius-Bau, si guardava dall’altra parte del parcheggio e si scopriva che semplicemente lì, dall’altra parte, dietro quel muro basso, c’era l’est e un altro mondo. Berlino era triste, allora. Incompiuta. Lo è anche Gerusalemme.

Mi sono andata a rileggere Benvenisti perché una mia cara amica, che mancava da cinque anni da questa città, mi ha confessato che non si raccapezza più. E che, soprattutto, ci sono “tante case nuove, tanti palazzi”. Una frase del genere si può interpretare in due modi. Gerusalemme cresce, ed è una nota positiva. Oppure Gerusalemme si allarga, ma non cresce. E questa è tutta un’altra storia.

Il brano per la playlist di oggi è lo stesso del post precedente. La grande Stella  d’Oriente, Umm Kulthum, canta uno dei suoi brani più belli,  Al Atlal. I versi di Ibrahim Nagi sono altissima poesia: sulla Rete ho trovato questa traduzione in inglese e francese.

http://invisiblearabs.com/?p=3660

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