admin | June 2nd, 2012 – 10:11 am
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C’è un codice per tutto. Anche (forse soprattutto?) per un conflitto. Ci sono strane regole, nella follia di luoghi come Gerusalemme, e di quella terra del conflitto che racchiude Israele e Palestina. Ci sono lingue, prestiti linguistici, gerghi che crescono all’ombra del conflitto. Tanto per fare un esempio, i palestinesi di Gerusalemme prendono a prestito poche parole dall’ebraico degli israeliani. La più frequente – ed è il segno della vita quotidiana – è machsom, checkpoint, che nessuno ha avuto né la pazienza né il gusto di tradurre in arabo. Machsom rimane ebraico, perché il checkpoint è israeliano e gestito dagli israeliani.
La lingua, dunque, rappresenta anche il tuo nemico. Su entrambi i fronti. E così non sorprendono le due notiziole apparse in questi giorni. Due notiziole simmetriche, di parte palestinese e di parte israeliana. Alla prima, a maggio, persino il New York Times aveva dedicato spazio. Nella Gaza controllata da Hamas si ricomincerà a insegnare l’ebraico, inserito nel programma dei corsi facoltativi. Il direttore generale del ministero dell’educazione del governo de facto di Hamas nella Striscia, Mahmoud Matar, è chiarissimo. “Attraverso l’ebraico possiamo comprendere la struttura della società israeliana, il modo in cui pensano”. “L’arabo è una lingua di base, per gli israeliani, e la usano per ottenere quello che vogliono”, spiega ancora Matar. “Guardiamo a Israele come il nemico. Insegniamo ai nostri studenti la lingua del nemico”.
Lo sguardo da Gaza, chiusa al mondo da un embargo che dura da tanti anni e che il valico meridionale di Rafah verso l’Egitto ha solo parzialmente aperto, è uno sguardo a cui spesso manca il contatto continuo e costante con la realtà quotidiana di ciò che succede oltre. Oltre i confini, oltre i muri, oltre il mare. Perché gli israeliani la studiano sempre meno, la lingua araba. Era una mia impressione del tutto empirica, frutto dei lunghi anni a Gerusalemme, consumata nei colloqui quotidiani: alla Porta di Damasco i palestinesi parlano tranquillamente ebraico, anche con una competenza di tutto rispetto. Pochi, pochissimi, rari gli israeliani che parlano con i palestinesi in arabo. Molti, anziani, sono quelli che qui si chiamano i marocchini, i mizrahim, gli ebrei che verso la metà degli anni Cinquanta arrivarono en masse dai paesi arabi. Ebrei dei paesi arabi. Oppure, come me li ha descritti Sami Michael, grande scrittore, arabi di fede ebraica. Ebrei che avevano l’arabo come madrelingua. Tra i giovani, poco da fare. A sapere l’arabo sono in pochissimi. I loro coetanei palestinesi, invece, l’arabo lo devono sapere: per pagare le bollette, per leggere un documento che arriva dal comune di Gerusalemme, per la segnaletica stradale, per andare in banca o rispondere a un soldato che chiede loro il documento d’identità. Chiede il documento con le parole e con un gesto che è ormai parte del mio sguardo su questa città: la mano sinistra con il palmo rivolto verso l’alto, e la mano destra che si poggia sull’altra in perpendicolare, sempre col palmo verso l’alto.
L’impressione di uno sbilanciamento nella conoscenza reciproca delle lingue di Gerusalemme è ora confermata da un autorevole rapporto dell’Accademia israeliana delle Scienze e delle materie umanistiche. Sono sempre meno gli israeliani che studiano l’arabo, e che preferiscono altre materie alternative, dall’informatica al diritto. I motivi? Intanto la qualità dell’insegnamento, visto che su 1300 insegnanti di lingua araba solo poco più di un decimo sono madrelingua. Eppure, non mancherebbero, visto che la popolazione israeliana è per circa un quinto composta da palestinesi… Ma ci sono altre ragioni, spiega l’articolo di Ynet. Gli esperti ritengono che gli studi di arabo siano “sottomessi” alle necessità delle strutture della sicurezza israeliana. Sicurezza al posto di cultura. Muri al posto di ponti. Perché, anche in questo caso, è la lingua del nemico, e come tale viene percepita.
In genere, in altre parti del mondo, si studia una lingua per conoscere l’Altro, comprenderlo, eliminare cliché e percezioni vecchie e stantie su chi ci sta di fronte. Si studiano lingue per fare affari, per conoscere la letteratura. Qui la si studia per conoscere il nemico. Ogni luogo ha i suoi codici. E anche la follia può essere regolamentata.
Ebbene sì, nella grafica contemporanea araba succede anche questo. L’icona di Che Guevara riprodotta usando l’antica arte della calligrafia araba. Anche su T-shirt.
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