di Betta Tusset
Ho appena letto il romanzo “Il poeta di Gaza”, di Yshai Sarid, ed. e/o.
Sarid, ‘che ci fa pensare a certi romanzi di Grossman, Oz e Yehoshua”, come recita entusiasticamente la quarta di copertina, è un avvocato israeliano che per questo libro ha vinto anche un prestigioso premio francese. Per il suo coraggio, per la sua analisi spietata della società israeliana, piena di contraddizioni, di brutture, di cinica ottusità.
In effetti uno dei protagonisti del romanzo, nientemeno che un ufficiale dei servizi segreti israeliani, ben incarna la prepotenza, frammista di disagio represso a fatica, di tutti quegli israeliani, che si trovano, in virtù della loro fedeltà al loro stato, a ‘dover’ torturare, perseguire, umiliare un intero popolo. In nome dell’onnipresente sicurezza, in difesa a qualsiasi costo di un popolo ‘civile’ da un popolo di terroristi. Perchè questo è il punto. Sicuramente Sarid analizza e denuncia con crudezza e quasi con senso di liberazione tutte le nefandezze al di sopra e al di sotto della legge che i servizi segreti – e i militari- perpetuano con arroganza e disprezzo nei confronti dei detenuti palestinesi. Non so come il libro sia stato accolto in Israele, ma certamente questo lavare i panni sporchi di famiglia all’aria aperta, gli avrà provocato qualche problema di consenso.
Ma la sensazione di cui non sono riuscita a liberarmi, nonostante – giuro- ce l’avessi messa tutta per essere pronta ad ascoltare una nuova voce libera della società israeliana, è quella di percepire che questi panni sono rimasti nel cortile di casa. All’aperto, ma dentro. Vorrei ringraziare Sarid, per aver raccontato con sofferenza, credo, e con chirurgica puntualità di linguaggio e di narrazione le cose che comunque le associazioni israeliane che si battono per la difesa dei diritti umani dei palestinesi denunciano puntualmente da decenni. Questo gli fa quantomeno onore. E forse può aiutare i suoi connazionali, se non a venirne a conoscenza, a farne argomento di dibattito più ampio.
Ma. Dentro. Dentro, si viene a sapere che ci sono persone che si stanno disumanizzando e che uccidono o torturano senza remore. E c’è la paura costante, ancora. E il ricordo di attentati disseminati ancora oggi nella mappa interiore della vita di ogni cittadino israeliano.
E fuori. Fuori c’è un popolo di terroristi pronti a farsi esplodere, perchè anche loro ormai in preda ad un odio cieco. Solo un vecchio poeta palestinese, stanco e malato, sembra estraniarsi da tutto questo. Ma anche lui, in famiglia, è circondato dall’odio, dai terroristi. E il suo amore per ‘l’altro’ sembra rifugiarsi solo all’interno della sfera privata, senza che questa diventi occasione di una riflessione altra. La storia d’amore, la storia di vincoli personali d’affetto che nonostante tutto riescono a intrecciarsi, non basta. Mi diceva un amico israeliano: “E certo che ho amici palestinesi. Mica siamo incapaci di sentimenti e affetti, né noi né loro. Ma non per questo significa che i problemi sono risolti. Attenzione alle foglie di fico”.
Non basta la sfera personale. Ci vuole la forza e il coraggio di fare il salto fuori, verso lo spazio politico. Verso le ragioni profonde di questa tragedia.
Insomma le parole che non compaiono in questo libro sono sempre le stesse parole che farebbero fare il salto oltre il cortile. Occupazione, annessione di terre, colonie, muro. Stato occupante, oppressione, legalità internazionale non rispettata. In un romanzo? Certo, anche in un romanzo, se il tema è quello. Perchè questi due popoli si odiano? Sembra un dato di fatto. Di qua terroristi, di là soldati e Mossad. Entrambi spietati e ormai senz’anima e cuore. Ma impegnati in una ‘guerra’ a-storica, a-geografica. No. Non così. Non ancora una volta questa ambiguità ammantata di politically correct.
In fondo la quarta di copertina mi aveva avvertito. Proprio come i tre romanzieri per la pace, è questo nuovo autore.
Nessuno di loro va fino in fondo.
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