«Cosa sognano i ragazzi a Gaza»

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sabato 8 febbraio 2014
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di Laura Silvia Battaglia

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La Repubblica: 08 febbraio 2014

Mariam Abuamer ha la camera da letto rosa e un armadio di giubbotti in finta pelle nera, le tazze di Starbucks sul comò e una foto di Fai-ruz, la cantante libanese, appesa a una parete.Prima di uscire di casa perde un quarto d’ora per lisciarsi i capelli, corti e nerissimi.
«Pensano che voglia scandalizzare invece voglio solo essere me stessa: cristiana e senza il velo. Mi piace il rock, e canto».
Mariam ha 23 anni e vive a Gaza City, all’ultimo piano di uno dei palazzoni incompiuti della zona Est con i balconi aperti come bocche sdentate, le finestre grigie e affumicate come occhiaie vuote.
Frequenta un’università privata, indirizzo comunicazione, «perché nelle università private c’è più libertà», dice.
Sogna di emigrare a Londra con una borsa di studio e intanto canta in un gruppo musicale che spopola tra i giovani gazawi, la Watar Band. I suoi amici,Alaa, Khamis, Mohammed, Anas, Eyad, Hassan e Ahmed, con Sarah, la seconda vocalist, che porta orgogliosamente il velo e suona il basso elettrico, provano a dare una scossa a una città che oggi soffre per l’embargo israeliano e per una scelta politica che inizia a pesare.
Mariam è una delle ragazze gazazvi più fortunate: il padre ha accettato, dopo qualche resistenza, di tenersi una figlia ribelle, e la supporta, moralmente ed economicamente. Di certo in famiglia ci sono i soldi per fare studiare i figli.
Ma non tutti qui hanno la fortuna di essere nati “bene”.
Gaza soffoca da quando i tunnel sotterranei di Rafah, al confine Sud, con cui i Fratelli musulmani aiutavano Hamas ad aggirare l’embargo imposto da Israele, sono stati distrutti per i pessimi rapporti con l’Egitto dei militari.
La notte si cammina al buio, le strade non sono illuminate.
Quando l’elettricità manca – cioè 18 ore al giorno – negli appartamenti non c’è neppure il tempo per ricaricare i telefoni cellulari, i pc, o per procurarsi una riserva di acqua calda.
Si dorme a turno, in modo che qualcuno sia pronto a svegliare gli altri per approfittare dell’erogazione pubblica di energia.
Ai disastri dell’embargo si aggiungono le restrizioni imposte da Hamas in tema di separazione tra i sessi: vietato passeggiare sulla spiaggia mano nella mano, cantare o esibirsi nei locali.
Le ragazze sono sempre più velate; i locali misti sono presidiati dai governativi.
Il malcontento cresce, i più rimpiangono la corruzione discreta e liberale di al-Fatah.
Nelle caffetterie si bisbiglia di politica e, per timore di essere ascoltati, visto che negli ultimi mesi sono spariti dei ragazzi che avevano criticato l’attuale dirigenza, si parla in codice: “hummus” è una delle parole più pronunciate, e sta per “Hamas”, non per la crema di ceci.
Sarni, trent’anni, si guarda bene dal dare il suo cognome: «Lo scandalo qui sono i nuovi giovani ricchi, tutti dirigenti di Hamas: siamo in molti ad esserci pentiti di aver votato per loro. Volevamo debellare la corruzione e invece siamo caduti dalla padella alla brace*.
In tutto, i nuovi ricchi sono 800: militanti nelle file del nuovo governo della Striscia, hanno rimpinguato i loro averi grazie alla corruzione ai valichi di Rafah, al buon rapporto con i Fratelli Musulmani e al sostegno di Turchia e Qatar.
Si possono permettere più di una moglie, ville e auto da sogno.
In compenso, se i cantieri aperti si susseguono lungo tutte le vie di Gaza City, di giovani operai al lavoro non c’è nemmeno l’ombra.
Da luglio a oggi, per il ministero del Lavoro della Striscia, i disoccupati sono cresciuti dal 26,6% al 46%. L’edilizia ha subìto il colpo più duro: 30mila operai non hanno più materiali per lavorare.
E a meno di avere genitori benestanti, chi è giovane vive sotto la soglia di povertà.
Un dramma generazionale, se si pensa che per l’Onu il 65% della popolazione di Gaza ha meno di 25 anni, che l’80% non è in grado di pagare le tasse scolastiche e che tra i giovani diplomati e laureati i disoccupati sono al 66%.
Chi riesce a permettersi l’educazione superiore vede il titolo come un trampolino per un consolato straniero, un ufficio governativo, i compound Onu, per l’estero.
Eppure, lungo Jamal Abdel Nasser Street, il viale dove, una a destra l’altra a sinistra, si aprono le due maggiori università di Gaza, ogni mattina alle 8 sciamano un migliaio di studenti.
L’Islamic University al-Ummah di Gaza ha conosciuto un’impennata di iscrizioni da tre anni a questa parte. Con una rigida suddivisione di genere e un apprezzato corso di laurea in diritto islamico, ha un’offerta che soddisfa i quadri dirigenti più conservatori.
Nel cortile della sezione femminile il numero delle ragazze velate è leggermente superiore a quello dell’università concorrente, la al-Azhar, nata nel 1991, che propone molti più corsi misti.
Neveen, Mustafa, Laura, Nura, Susan frequentano il corso Media e giornalismo all’università al-Azhar.«Qui i seminari sono più incentrati sulla multimedialità», dice Mustafa al-Torok, 23 anni.
Nelle classi miste possono studiare anche le ragazze, ma nella società gazawi una donna che fa figli deve smettere di lavorare:
Laura, vent’anni, due figli, un divorzio alle spalle e una collezione di hijab molto glam, lo sa bene: «Sogno di fare la giornalista, ma al massimo potrò insegnare». A
beer Ayyoub, che invece è riuscita a diventare giornalista e fa la traduttrice per i seminari tenuti da colleghi stranieri, ammette di faticare a imporsi, nonostante l’inglese perfetto: «A Gaza ti rispettano solo se sei un uomo».
Se le giovani donne in parte lamentano e in parte accettano questa realtà, tra i ragazzi gazawi si fanno strada modi diversi di affrontare uno dei momenti storici più bui e meno mediatizzati che la Striscia ricordi.
Anche se il picco è stato registrato nel 2009, con 1500 morti per overdose, il consumo di Tramadol è ancora molto elevato.
Questa droga derivata dall’oppio, usata in ospedali e ambulatori come antidrepressivo per sopportare le crisi di panico durante i bombardamenti israeliani, è il lenitivo di una vita senza lavoro, identità, mobilità, futuro. Facile da ottenere (si compra senza ricetta), arriva a Gaza in quantità dai tunnel.
Ahmad, 27 anni, filmaker che sull’argomento ha girato un corto, Le Biglie, crede sia importante parlarne: «Il consumo non è diminuito: conosco molte persone che “si fanno” di nascosto».
Del resto, in questa finestra chiusa sul mondo che è la Striscia, oltre a lavorare e a farsi una famiglia, non c’è molto altro.
E da qualche anno ci si diverte ancora meno. I locali chiudono, soffocati sia dai controlli governativi che dal costo del gasolio importato da Israele per attivare i generatori elettrici.
Gli unici luoghi dove ci si diverte senza il timore di essere controllati, sono i matrimoni e gli addii al celibato.
Non distante dal porto di Gaza, dagli alberghi sul lungomare e dal quartier generale delle ong, in Abu Galion, resiste un locale dove si festeggia. Chiude alle 22, elettricità permettendo, e non fa pubblicità.
Ma tutti sanno dov’è. Yousef è appena uscito da lì, dopo una serata passata a ballare: «Ho speso 500 shekel, ma chi se ne importa. Domani mi sposo: non capita tutti i giorni».

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