Da qualche anno non torniamo nel piccolo villaggio di Awarta, ma non potremo mai dimenticare il nostro arrivo con l’ambulanza della clinica mobile nella piazza, a pochi chilometri dalla grande città di Nablus. Era l’agosto del 2004 e ai coprifuoco quasi quotidiani dell’enorme città corrispondeva la “normalità” di continue incursioni dell’esercito in questo luogo tranquillo sulle colline. Sono passati tanti anni e mentre leggiamo le “solite” notizie dai Territori Occupati, ci si rivolta lo stomaco: “Quinta ondata di arresti nel villaggio palestinese di Awarta. Più di 50 abitanti, dopo esser stati arrestati nei giorni scorsi, rimarranno in carcere pur senza una imputazione e prova precisa. La loro colpa è che Awarta si trova vicino all’insediamento di Itamar: ricordate? Un’odiosa, terribile strage di una famiglia di coloni, di cui l’esercito ha proibito ogni divulgazione di notizie. Ma intanto da un mese ogni perquisizione, arresto e violenza sono leciti. La ong Addameer denuncia: “Nessun mandato di arresto è stato mai presentato agli abitanti, durante le operazioni militari. Nelle perquisizioni casa per casa sono stati utilizzati cani, spesso i soldati erano mascherati e gli abitanti, tra cui donne e bambini, dopo essere stati ripetutamente interrogati, sono stati costretti a firmare dichiarazioni in lingua ebraica e minacciati di prolungare la loro detenzione in caso di una mancata firma. L’altro giorno sono state arrestate 200 donne tutte insieme. Si tratta evidentemente di una punizione collettiva per tutto il villaggio”.
Cosa possiamo pensare dell’ameno villaggio di Awarta sulle dolci colline di Nablus? E cosa potremmo ancora dire se fossimo lì, a chi abbiamo conosciuto da giovane in coda al check point se dopo anni lo vedessimo adulto, ancora a subire ogni giorno le stesse violenze dall’esercito? C’è una parola che gli arabi hanno ripetuto in questi mesi, dalla Tunisia allo Yemen, per dire che ne hanno abbastanza della “hagra” subita da troppo tempo. Deriva dal verbo hagara che significa disprezzare, umiliare.
Ecco, ciò che non finiremo di ricordare su BoccheScucite è proprio questa infinita, eterna “hagra” del popolo palestinese.
Basta! È troppo! Tutta questa montagna di crimini ripetuti e diventati “normalità” non potranno durare per sempre!
E allora ecco un’altra parola araba che volentieri impariamo e diffondiamo anche nel nostro Paese che sta andando a pezzi tra prostituzione di stato e folle razzismo: “KIFAYA!”
Kifaya vuol dire: “è sufficiente”, “stop”, “basta”. Lo abbiamo sentito gridare nelle piazze traboccanti di speranza della Tunisia e dell’Egitto.
Kifaya! “Ne abbiamo abbastanza” di sopportare una mole così pesante di violenze e non possiamo più tacere. Tahar Ben Jelloun lo racconta come una svolta storica che i bombardamenti della Libia hanno coperto, ma che non dobbiamo dimenticare. Kifaya è il nome di un movimento della società civile egiziana che fin dal 2004 manifesta in modo democratico e laico la sua lotta alla corruzione e alla dittatura di Mubarak. Nel 2006 si è impegnato particolarmente contro la politica israeliana di occupazione dei territori palestinesi e nel 2009 non è rimasto in silenzio durante il massacro di Gaza. Gli slogan di Kifaya sono rivolti alla gerontocrazia egiziana, ma la stessa rabbia l’abbiamo sentita in Tunisia e in Yemen, a Bil’in in Cisgiordania come a Jabalya a Gaza: “Basta con le violenze dell’esercito! Basta con l’autoritarismo! Basta con lo sfruttamento! Basta dopo 5 mandati! Basta col nepotismo! Basta con la censura! Basta con la corruzione! Basta con le torture!” (Tahar Ben Belloun, La rivoluzione dei gelsomini, Bompiani).
Insomma, non ci resta che gridare Kifaya! Non è più sopportabile il conto della povera gente innocente uccisa a Gaza negli ultimi giorni in cui Vittorio lanciava i suoi ultimi post, tirando la riga del totale con la cifra aberrante di 19. A mucchi, ormai, si contano le vittime senza elencare i civili feriti, nei raid aerei e nei cannoneggiamenti su Gaza. “Misura necessaria – a detta dell’esercito- per fermare il lancio di razzi”.
Kifaya, “non se ne può più”, “siamo al limite”, se in un contesto di tale violenza, impazzito e alimentato ad arte nei fondamentalismi più distruttivi, una giovanissima ragazza di Ramallah viene tenuta ostaggio a casa dello zio (vedi la rubrica: A voce alta), spaventata e umiliata dall’esercito israeliano.
Kifaya, ma anche tahaddi, sfida, come la stessa giovane Nai ha imparato e ci invita a fare, in modo squisitamente femminile e nonviolento, nei confronti di ogni oppressione.
Kifaya, e non Ya, come invece siamo sollecitati a cantare con Raiz, ex leader degli Almamegretta, che nel suo ultimo cd, impossessandosi dell’esortazione che lui definisce ‘arabo-ebraica’ YALLA e accorciandola, banalizzandola, sembra dirci “dai, è possibile, la pace si può fare…. se i palestinesi finalmente la vorranno”…
In un’intervista pubblicata ne “Il fatto quotidiano” (9 maggio), leggiamo che “Ya” “sembra esprimere la vitalità e la voglia di cambiamento che sta emergendo nel mediterraneo, un esplosione che grida libertà”.
Raiz, che ha appoggiato quest’inverno insieme a Saviano la manifestazione di sostegno a Israele, ci avverte poi che “Tonnellate di idiota e menzognera propaganda da entrambi i contendenti e relativi supporters internazionali vengono vomitate su questo terribile e dilaniante conflitto. Tutti, a ormai 63 anni dall’anno della fondazione dello stato ebraico mantengono le stesse posizioni che non hanno risolto niente. Io sono molto legato ad Israele e sono amante della verità: ho aderito alla manifestazione Italia per Israele perché penso che la verità sia necessaria per sfatare miti e ridicoli manicheismi, perché le acque stagnanti delle opinioni su questo conflitto vanno smosse con coraggio. (…) Non vedo nulla di contraddittorio tra le mie idee di pace ed integrazione tra popoli e la mia adesione alla manifestazione pro-Israele.
Eh no. Non ci si impossessa così delle parole, svuotandole del loro valore, della loro genuinità. Ya, yalla, yamme… esortazioni ad andare, ma nella legalità; ad agire, perseguendo però l’idea di una pace frutto della giustizia; a restare, fermi e coerenti con il principio di autodeterminazione di popoli, cosa che Israele in questi giorni sembra restio a fare (leggi: Lente di ingrandimento).
Perchè sennò è troppo. Sennò è Kifaya!
Alla fine, poi, conta poco che questa storia infinita riguarda pagine ingiallite della Nakba del 1948, che ricordiamo proprio oggi 15 maggio, mentre il convoglio “Restiamo umani” (In Breve) è arrivato in queste ore a Gaza, carico di aiuti, di voglia di riscatto e di memorie collettive recenti e lunghe sessantatre anni.
Il solo primo ministro Netanyahu ci ha dato due chiari esempi in questi giorni: mentre con una mano firmava l’ennesimo via libera alla costruzione illegale di quasi mille nuove case nelle colonie di Gerusalemme est, con l’altra ha scritto un appello accalorato ai leader europei perché facciano il possibile per impedire la partenza della Freedom Flottilla, che fra poche settimane sfiderà ancora una volta non solo l’embargo illegale di Gaza, ma soprattutto l’ipocrisia del nostro silenzio.
Ma ciò che ci fa sussultare ancora: “Kifaya! Questo è troppo!”, è un altro particolare: l’unico leader europeo ad aver risposto affermativamente al “grande amico Benjamin” è stato Berlusconi, ovviamente incurante del fatto che la legittimità della missione pacifica e nonviolenta della nave su cui viaggeranno anche molti italiani, è stata sostenuta dall’Onu visto che il suo operato si svolge nell’ambito del diritto internazionale e di quello umanitario.
Milioni di persone, ritenute per secoli invisibili, in pochi mesi sono scesi nelle piazze delle città arabe perchè “quando è troppo è troppo”.
Qui in Italia come a Tunisi, sulla Freedom Flottilla come a Gaza City, intoneremo l’inno nazionale tunisino che ha scosso i palazzi dei potenti:
“Il giorno in cui il popolo aspira alla vita
il destino deve darsi una risposta
Le tenebre dissiparsi
E le catene spezzarsi”
BoccheScucite
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