tratto da: Alessandra Arrigoni è con Egidia Beretta
«Da noi nessuno cammina più per strada» mi disse una volta Vittorio Arrigoni. Tutti serrati nelle nostre carcasse di ferro su quattro ruote. Camminare è ormai roba da sportivi.
Lui invece si spostava sempre su due piedi. Anche al buio. Anche nella Striscia di Gaza. Ondeggiando nei suoi pantaloni militari neri, le tasche colme e consumate, con l’immancabile cappello da lupo di mare, salutava tutti quelli che incontrava, pur non conoscendoli. Come la sera del 13 aprile del 2011, quando venne rapito e in poco più di ventiquattro ore assassinato.
Ho conosciuto Vittorio nel 2009, a Gaza city, ed è stato come scontrarsi con un personaggio in fuga da un romanzo. Un attivista dei diritti umani con anfibi, piercing e tatuaggi. Una montagna di muscoli che scriveva poesie. Uno scudo umano con il look da Che Guevara o Corto Maltese. L’erre moscia, la pipa e una prosa insanguinata. Come la realtà che aveva scelto di vivere e vedere fino alla fine dei suoi giorni.
Vittorio era un partigiano testardo e intransigente, uno spirito romantico tormentato. Si definiva un «geroglifico mai decifrato» nella costante ricerca di un senso. Ma se non fosse stato per quel suo eccesso di sensibilità, non avrebbe mai fatto certe scelte e imboccato certe vie, guidato dal suo unico credo: il rispetto dei diritti e della dignità umana.
Che si trovassero a Gaza, in Italia, in Africa o America latina, Arrigoni stava sempre, per partito preso, dalla parte di quelli che per lui erano i più deboli. Ma le sue non erano solo belle parole: si calava nella loro realtà, dando concretamente una mano e vivendo le loro sofferenze come fossero le sue. Un’empatia che gli è costata, oltre a indimenticabili momenti di condivisione, pesanti attacchi e anche una grande sofferenza, forse il lato più oscuro e meno noto della sua storia.
Gaza, la sua ultima tappa, è un mondo alla rovescia, «la madre di tutte le ingiustizie», diceva lui, che per questo l’aveva scelta. Viverci, specie per chi non ci è nato, è difficilmente sostenibile. Farlo sotto le bombe, in un costante stato di pressione psicologica, è alla lunga umanamente impossibile.
Vittorio lottava contro se stesso oltre che contro gli altri. Contro i fantasmi che avrebbe voluto scacciare, ma che invece ha scelto continuamente di rievocare, in nome del dovere della testimonianza.
«Restiamo umani», il suo motto diventato famoso in tutto il mondo, non è uno slogan fortunato coniato con leggerezza, ma la sintesi di un percorso di coraggio e fatica. La fatica di restare umani, per l’appunto, e coerenti. Fino all’ultimo dei giorni.
Un messaggio che continua a ispirare molti e forse mai come oggi
tanto attuale.
Anna Maria Selini

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