Da Washington ad at-Tuwani, da Susyia a Bulciago…

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Caro Obama, prima di parlare… venga a trovarci ad At Twani, a Susyia o a Bulciago. Per facilitarle la comprensione dell’effettiva “situazione di fatto sul terreno” provi a vedere con i suoi occhi come sopravvivono i palestinesi e constaterà con noi che Israele comincia ad aver paura ormai proprio della… resistenza nonviolenta!

Quando la resistenza nonviolenta fa paura!

La grande politica si può vedere da Washington, oppure da at-Tuwani, un paesino palestinese delle South Hebron Hills, da anni a rischio ‘estinzione’, nel senso che la pressione dei coloni sul villaggio, sui suoi abitanti, e sui bambini che debbono andare a scuola è diventato un simbolo della vita quotidiana in molte zone della Cisgiordania. Persino Tony Blair, l’inviato speciale per il Medio Oriente del Quartetto, lo ha visitato, l’anno scorso.
La grande politica che condiziona il Medio Oriente, dunque, la si può vedere da due prospettive diverse, molto diverse tra di loro. Me l’ha stranamente insegnato un film con Robin Williams, che parlava di tutt’altro, di un malato di mente. E da At-Tuwani la preoccupazione di Netanyahu, che i confini del 1967 non siano difendibili, assume un sapore tutto speciale, un sapore per il quale ci si chiede se sia più difendibile Israele quando si penetra così a fondo in Cisgiordania. Se per esempio Psagot, la colonia che sta proprio di fronte, a due passi da Ramallah, sia più difendibile di Tel Aviv. Se lo sia Bet El, o Kiryat Arba, tanto per citare alcuni degli insediamenti più vicini alle più importanti città palestinesi, Ramallah o Hebron (Al Khalil).

Torniamo, però ad at-Tuwani, che ha ricevuto per l’ennesima volta la visita dei soldati israeliani, stavolta assieme a membri dell’intelligence. Il problema – dicono quelli del Christian Peacemakers Team, che assieme ai volontari italiani aiutano gli abitanti del villaggio – sembra fosse la resistenza nonviolenta. Interessante, vero? Il problema non è Hamas, non è il terrorismo, bensì la resistenza nonviolenta, che è la novità degli ultimi anni, tra i palestinesi. A Bil’in, a Nabi Saleh, a Beit Ummar, ad at-Tuwani, dovunque la comunità locale si è organizzata per reagire, al muro, al furto della terra, agli attacchi dei coloni. La resistenza non violenta fa paura, sembra.

Paola Caridi, www.invisiblearabs.com

Questo è il resoconto degli internazionali, a Tuwani:

At-Tuwani, Lunedì 23 maggio,

l’intelligence israeliana è entrata ad At-Tuwani, scortata da circa quindici soldati. Nell’operazione i militari israeliani hanno invaso la casa di un leader locale, hanno chiesto che gli abitanti cessassero le loro resistenza nonviolenta, minacciando ritorsioni qualora i palestinesi avessero persistito nel far valere i propri diritti sulle terre.
Verso le 7 di sera, due veicoli militari e circa una quindicina di soldati sono entrati nel villaggio. Con le armi spianate e pronte a sparare hanno ispezionato le stanze e i dintorni. Contemporaneamente quattro uomini in abiti civili, ma con equipaggiamento militare e fucili d’assalto, hanno sistematicamente avvicinato uomini adulti per interrogarli. I quattro uomini, successivamente identificati come agenti dei servizi segreti hanno chiesto indirizzi, numeri di telefono, luoghi dei rapporti di lavoro e diversi dettagli personali.
Il personale dell’intelligence ha interrogato anche gli abitanti dei villaggi sulle recenti manifestazioni ed azioni dirette svolte dalla comunità ed ha chiesto che i palestinesi cessassero la loro resistenza nonviolenta. “Vuoi diventare padre di un martire?” hanno chiesto ad uno dei leader, lasciando intendere che le forze di occupazione potrebbero rivalersi sui loro bambini.
Gli agenti hanno anche chiesto che gli internazionali si astenessero dal fare qualunque fotografia degli eventi, senza mostrare alcun mandato o documento d’identificazione.
L’intelligence ha anche minacciato di chiamare la polizia locale per far arrestare gli internazionali. L’operazione è durata più di due ore.

Immaginazione contro occupazione: il festival di Susyia di Emma Mancini AIC

Un festival per rendere omaggio alla resistenza nonviolenta del popolo palestinese. È quello che è accaduto sabato 28 maggio nel villaggio di Susyia, nelle South Hebron Hills.
Il vento tirava forte, la sabbia bruciava gli occhi delle centinaia, forse 500 persone, tra palestinesi e internazionali e attivisti israeliani, che hanno assistito al pomeriggio di festa tra le tende del piccolo villaggio. Oggi è un giorno importante, hanno gridato dal palco improvvisato: si festeggia il primo anno del centro culturale di Susyia, il Creative Learnig Center: “L’occupazione non distrugge l’immaginazione, l’occupazione non fa morire lo spirito di creatività del nostro popolo”, ha detto uno degli organizzatori. Un centro che sorge nella tenda centrale di Susyia, dove si svolgono tante attività, per grandi e bambini: corsi di inglese e corsi di ebraico, corsi di dabka (la danza tradizionale palestinese), poesie e canzoni.
A celebrare un simile risultato, sono arrivati in tanti: internazionali e attivisti israeliani, molti di loro membri di associazioni e organizzazioni per i diritti umani. C’erano gli ex soldati ebrei di Breaking The Silence, impegnati oggi a svelare che cos’è l’occupazione all’opinione pubblica israeliana. C’erano i giovani di Operazione Colomba e di Christian Peacemaker Teams, che fanno la scorta ai pastori e ai bambini nel villaggio di At-Tuwani, preso quotidianamente d’assalto dai coloni di quattro diversi insediamenti. C’erano gli attivisti di B’Tselem, associazione israeliana per la tutela dei diritti umani del popolo palestinese. E ancora, i volontari dell’EAPPI, che svolgono ogni giorno monitoraggio contro le violazioni nei checkpoint della Cisgiordania e nella città di Hebron.
Il pomeriggio è trascorso tra poesie, canzoni, clown che danzavano la dabka con i giovani del villaggio. In mezzo alle tende e ai volti scavati degli anziani di Susyia.
È quasi surreale muoversi tra le poche tende che fanno di questo lembo di terra quello che resta dell’originario villaggio di Susyia. Nel 1948 molte famiglie palestinesi si sono trasferite nel piccolo villaggio dopo essere state cacciate dalle città a Sud dello Stato d’Israele. Nel 1996, l’esercito israeliano ha distrutto le abitazioni di Susyia: la zona sarebbe considerata sito archeologico, impossibile per dei civili vivere là. Perquisizioni illegali, devastazioni delle case, arresti sono stati all’ordine del giorno per anni. Tutti i residenti sono stati così costretti a spostarsi in un terreno vicino.
Qui 400 persone sono costrette a vivere nelle tende, subendo frequenti attacchi dei coloni: “Arrivano con pistole, sassi e spranghe. A volte portano le loro pecore a pascolare la nostra terra e l’esercito non interviene per difenderci: ogni sabato da settimane succede lo stesso”.
I coloni hanno tentato di rovinare con la solita cruda violenza anche questo pomeriggio di festa. Poco dopo le 17, hanno cercato di avvicinarsi al villaggio, scendendo dalla vicina collina, dimora della colonia di Susyia. Sono stati fermati dall’esercito israeliano.

Quella bandiera, quella terra martoriata… e i ponti gettati da Vittorio

Quel mattino mentre percorrevo le strade di Bulciago non avevo la minima idea di che cosa sarei riuscita a dire, ma non ero preoccupata di questo: sapevo che anche il silenzio sarebbe stato più loquace di qualsiasi parola.
A me bastava far sentire alla mamma di Vittorio, in quel loro momento difficile e doloroso, la mia vicinanza e quella delle sorelle della mia fraternità.
Volevo far sentire loro quella solidarietà che è propria di chi è “unito” dal dolore e dalla sofferenza per la perdita di una persona cara.
Non abbiamo solo parlato di Vittorio: ci siamo scambiati racconti carichi di bene, di amore, di umanità, di pienezza, di tenerezza ma anche di coraggio, determinazione.
Mentre si parlava, una bandiera palestinese in corridoio, che io vedevo molto bene, mi ha sempre “tenuto compagnia”; di tanto in tanto la guardavo come se quel simbolo di una terra tanto martoriata e a noi cara, accomunava me e Vittorio, oltre che la passione per i più deboli e indifesi.
Ascoltavo e parlavo; raccoglievo e consegnavo; sorridevo e piangevo.
È così che la stretta di mano iniziale, alla fine è diventata un abbraccio. Con questo gesto tanto umano e divino abbiamo lascito la casa di Vittorio consapevoli che lui, continua a costruire ponti di umanità anche da lassù!

Sr. Donatella Lessio, Charitas Baby Hospital, Betlemme

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