E’ quasi sicuramente involontaria, la data del 4 maggio per la firma della riconciliazione palestinese. Eppure, in questo strano, singolare, travolgente 2011, fatto di date che si sommano a date e che diventano esse stesse simboli, il 4 maggio è nella storia recente egiziana uno di quei giorni pesanti, il compleanno di Hosni Mubarak. Il giorno dei festeggiamenti ufficiali, in pompa magna, e, in privato, dei bilanci pesanti su quanto la dittatura avesse influito sul singolo individuo egiziano. Poco da festeggiare, insomma. Molto da piangere e recriminare.
Cacciato Mubarak, il 4 maggio diviene il giorno della riconciliazione palestinese. Di nuovo al Cairo. Anzi. Nel Nuovo Cairo. Non è più l’atmosfera dello storico accordo del marzo 2005, quello che spianò la strada alle elezioni politiche palestinesi, all’ingresso di Hamas nell’agorà della rappresentatività istituzionale. Oggi non ci sono più, sul palco, i due protagonisti di allora, da parte egiziana. Senza Hosni Mubarak. Senza Omar Suleiman. E alla guida del ministero degli esteri un uomo che ha già dimostrato che la politica regionale dell’Egitto sarà diversa, perché Nabil el Arabi non è una figura di secondo piano come lo sono stati tutti i ministri degli esteri egiziani dopo le dimissioni (oltre dieci anni fa) di Amr Moussa.
Ancora una volta, dunque, l’Egitto entra con tutti e due i piedi dentro la casa palestinese, ma le premesse sono esattamente opposte a quelle sulle quali poggiava l’interventismo mubarakiano. L’esempio è proprio la riconciliazione, il dossier più nascosto e meno considerato nell’analisi della questione palestinese degli ultimi cinque anni, eppure il più importante, rispetto a tutti gli altri. Perché la riconciliazione sottende tutto: sottende il caso Shalit e il dossier dei prigionieri, sottende le varie tregue con Israele. E’ per questo, perché è così determinante, che Omar Suleiman e Hosni Mubarak lo avevano lasciato in un cassetto, per anni, salvo poi ritirarlo fuori per qualche settimana, addirittura per qualche mese. Il tempo di due o tre incontri, di un documento abbozzato da far girare tra Fatah e Hamas a tempo debito, dire al mondo che la riconciliazione era cosa fatta, che necessitava solo di qualche piccolo dettaglio. E poi, tutto d’un tratto, il fallimento, la doccia fredda, il rinvio sine die. Sino alla prossima scadenza, in cui – per l’ennesima volta – Omar Suleiman ritirava fuori dal cassetto il vecchio abbozzo di documento della riconciliazione….
Tutto documentato, questo rinvio sine die, nei documenti di Wikileaks e anche nei Palestine Papers (è già dentro l’aggiornamento del mio libro su Hamas, in progress…). Con date, scadenze, fallimenti: un estenuante andirivieni sul quale ogni tanto qualcuno dei protagonisti palestinesi reagiva sbuffando. “Se ci lasciassero fare a noi, da soli, senza alcuna ingerenza straniera, noi l’accordo lo avremmo già trovato…”
Chissà se era poi vero, perché il rinvio sine die è stata una pratica comune anche dentro la casa palestinese. Contrastata, a onor del vero, solo da un piccolo manipolo di persone di buona volontà che – osteggiate a più non posso – non hanno smesso di tessere una tela fatta di piccole cose e di piccoli passi, costanti, senza mai abbandonare l’idea della riconciliazione. Quel filo tenue è servito a rimettere in piedi l’impianto della riconciliazione quando i tempi sono stati maturi. E i tempi sono arrivati con quello che è ormai definito il Secondo Risveglio Arabo (dopo il primo, d’impronta nazionalista, a cavallo tra fine Ottocento e seconda metà del Novecento). “Il Secondo Risveglio arabo li ha spinti sulla strada della riconciliazione”, mi ha scritto un amico palestinese, una di quelle poche persone di buona volontà. Lo hanno confermato tutti, da Abu Mazen ad Abu Marzouq. Niente rivoluzioni, nessuna riconciliazione.
Ora comincia la storia difficile. Non tanto e non solo per il governo dei tecnocrati, per i corpi di sicurezza, per i prigionieri politici. Ma soprattutto, e ancora una volta, per la questione della rappresentatività. Oltre l’ANP, perché ormai i tempi sono diversi, totalmente diversi. Riforma dell’OLP, ingresso di Hamas e delle altre fazioni nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e soprattutto rinnovo del suo parlamento, il PNC. Lo stanno chiedendo anche i ragazzi ad Al Manara, a Ramallah, che in questa foto stanno approntando la manifestazione. E in questo articolo di Noura Erekat su Al Jazeera English è chiaramente spiegato il perché.
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