Dalla rivolta siriana alla crisi iraniana: l’Oriente arabo si spacca

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18/01/2012

Mentre l’attenzione dei media occidentali è catalizzata dall’escalation fra Occidente e Iran, la stampa araba mediorientale si concentra soprattutto sugli sviluppi della rivolta siriana, sul riesplodere delle tensioni settarie in Iraq, e sui rischi che l’accavallarsi delle crisi nell’Oriente arabo porti a una terribile deflagrazione regionale.

SIRIA: LA LEGA ARABA IN UN VICOLO CIECO

Entro questo fine settimana, la Lega Araba potrebbe decidere il destino della sua – finora fallimentare – missione di monitoraggio in Siria. La fine della missione potrebbe significare un ulteriore passo in direzione dell’internazionalizzazione della crisi, avviando il dibattito su un possibile intervento militare arabo o – più probabilmente – aprendo la strada alla discussione in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU attorno a un’eventuale azione internazionale.

La Russia – ai cui disperati tentativi diplomatici, più che agli inefficaci sforzi della Lega Araba, sembrano affidate le ultime flebili speranze di una soluzione concordata in Siria – la scorsa settimana ha affermato di avere in possesso informazioni secondo le quali alcuni membri della NATO ed un certo numero di paesi del Golfo starebbero preparando un intervento militare in Siria.

In realtà, malgrado le molteplici smentite, sembra ormai chiaro da tempo che i piani di intervento esistono, ma resta da vedere se e quando saranno attuabili.

Pochi giorni fa, l’emiro del Qatar è stato il primo leader arabo a proporre apertamente l’invio di truppe arabe in Siria, ma – al di là degli enormi problemi tecnici che una simile iniziativa comporterebbe a livello militare per gli arabi – è difficile immaginare come si possa arrivare a un consenso all’interno della Lega a questo proposito, viste le reticenze di paesi come l’Iraq, il Libano e l’Algeria.

A ciò si devono aggiungere anche le perplessità di alcuni paesi del Golfo, finora dimostratisi i più decisi nell’esercitare pressioni sul regime di Damasco. Se l’Arabia Saudita è favorevole, come e più del Qatar, a un intervento militare (i sauditi premono più o meno apertamente per un ricorso al Consiglio di Sicurezza dell’ONU), Oman, Bahrein e Kuwait appaiono più riluttanti a ratificare un’ingerenza “esterna” in Siria, alla luce delle proteste interne a cui essi stessi devono far fronte.

Il rischio è però che l’indecisione araba porti all’emarginazione della Lega ed all’approdo del dossier siriano all’ONU, dove – sebbene in linea di principio ogni iniziativa potrebbe essere bloccata da un possibile veto russo o cinese – alcuni confidano di poter alla lunga strappare un tacito assenso a Mosca e Pechino, a patto di trovare le necessarie “contropartite”.

Infine, se la strada dovesse rivelarsi bloccata anche in sede ONU, gli interventisti più accaniti (e Riyadh sembra essere fra questi, a giudicare dai commenti apparsi su alcuni giornali sauditi), lungi dal perdersi d’animo, propongono la creazione di una “coalizione dei volenterosi” sulla falsariga di quella che portò all’invasione dell’Iraq.

Resta sottinteso che, più si ridurrà la base di consenso a un eventuale intervento in Siria, maggiori saranno i rischi che tale intervento comporterà non solo per la Siria, ma per la stabilità dell’intera regione.

RIESPLODE LA VIOLENZA IN IRAQ

Nel frattempo, una terribile ondata di attentati ha investito Baghdad ed altre città nel sud e nel nord dell’Iraq, da Bassora a Mosul, uccidendo e ferendo centinaia di sciiti, a testimonianza delriaccendersi di tensioni settarie nel paese apparentemente sopite negli ultimi anni.

Questi attentati hanno fatto seguito all’emissione di un mandato di arresto nei confronti del vicepresidente sunnita dell’Iraq, Tariq al-Hashemi, con l’accusa di terrorismo, ed alla richiesta di dimissioni avanzata dal premier Nuri al-Maliki nei confronti del suo vice, Saleh al-Mutlaq, anch’egli sunnita.

Secondo alcuni, nel paese sembrerebbe riprendere piede quella logica settaria che portò alla sanguinosa guerra civile del 2006-2007. Il tutto è aggravato dalla crisi nella vicina Siria, che potrebbe a sua volta sfociare in un conflitto fra sunniti e alawiti (la comunità a cui appartiene il clan degli Assad), ed avere serie ripercussioni in Iraq.

Il fatto che il vicepresidente iracheno al-Hashemi sia attualmente ospitato dal governo autonomo del Kurdistan iracheno, il quale si rifiuta di consegnarlo al governo centrale di Baghdad, rischia poi di deteriorare i rapporti fra iracheni sciiti e curdi, ed ha già determinato una crisi diplomatica fra Iraq e Turchia.

In riferimento alle tensioni scatenate dal mandato di arresto nei confronti di al-Hashemi, Ankara – che è il primo partner commerciale dell’Iraq ed ha stretti rapporti economici soprattutto con il Kurdistan iracheno – aveva ammonito che le tensioni fra sunniti e sciiti in Iraq avrebbero potuto coinvolgere l’intero mondo islamico.

Alla vigilia di una visita a Teheran all’inizio di gennaio, il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu aveva messo in guardia contro il rischio di una “guerra fredda” fra sunniti e sciiti in Medio Oriente.

Le dichiarazioni turche hanno suscitato la dura reazione del premier iracheno Maliki. Se già lo scorso dicembre egli aveva dichiarato che la Turchia interferiva con gli affari iracheni “appoggiando alcuni blocchi e personaggi politici”, in un’intervista di pochi giorni fa alla televisione Al-Hurra Maliki ha rincarato la dose affermando che la Turchia “sta giocando un ruolo che potrebbe portare a una catastrofe o ad una guerra civile nella regione”.

Il deterioramento dei rapporti fra Ankara e Baghdad va di pari passo con il raffreddamento delle relazioni fra la Turchia e l’Iran, non solo a causa di interessi contrastanti in Iraq (di cui Teheran è il secondo partner commerciale proprio dopo Ankara), ma soprattutto in conseguenza della rivolta siriana, sostenuta dai turchi, che sta facendo vacillare il regime di Assad, unico alleato arabo della Repubblica islamica iraniana.

TENSIONI SETTARIE, PANARABISMO, RESISTENZA

Sebbene analisti e commentatori, per esigenze di brevità o per un’effettiva incomprensione delle dinamiche irachene, tendano a liquidare le tensioni fra le diverse comunità che compongono l’Iraq come “tensioni settarie”, un breve riesame (come quello fatto qui sopra) degli attori locali e regionali coinvolti in tali dinamiche fa emergere chiaramente come i conflitti nel paese siano di natura eminentemente politica, sebbene assumano a volte la veste della religione, e sebbene l’estremismo religioso certamente giochi un ruolo.

Lo scontro fra le diverse comunità che compongono la popolazione irachena è uno scontro per il potere – ovvero per il controllo politico e delle ricchezze del paese – e gli Stati confinanti che spalleggiano tali comunità lo fanno per la posizione strategica che l’Iraq occupa da un punto di vista politico, geografico ed economico nel cuore del mondo arabo e del Medio Oriente.

Lo stesso fatto emerge in maniera ancora più evidente in Siria dove, se è vero che il paese potrebbe scivolare in una guerra civile dalle connotazioni settarie in grado di contrapporre fra loro le diverse comunità religiose ed etniche (principalmente sunniti, alawiti, cristiani e curdi), è altrettanto vero che ciò avverrebbe a causa del conflitto politico fra il regime e i suoi oppositori (interni ed esterni) che, data la variegata composizione etnica e religiosa della società siriana, troverebbe sfogo lungo le linee di divisione che la caratterizzano.

Sia l’Iraq che la Siria sono attualmente al centro di uno scontro regionale per la ridefinizione dell’identità e dell’appartenenza politica ed economica del mondo arabo – filo-occidentale, indipendente, o filo-iraniano? Liberale o islamico? Democratico o autoritario? (categorie a cui potrebbero aggiungersene altre, e che non sono affatto mutuamente esclusive, ma intrecciate in un groviglio pressoché inestricabile, per cui ad esempio “islamico” non vuol dire affatto necessariamente “filo-iraniano”, “filo-occidentale” non vuol dire necessariamente “liberale” o “democratico”, e viceversa) – e per la ridefinizione degli equilibri regionali fra i paesi arabi, ma soprattutto fra le potenze regionali non arabe: Iran, Turchia e Israele. Di tale scontro, naturalmente, non possono non essere parte integrante anche gli Stati Uniti e l’Occidente.

Se la Siria e l’Iraq sono geograficamente al centro di questo scontro, il conflitto arabo-israeliano da un lato e la crisi internazionale legata all’Iran dall’altro ne rappresentano geograficamente i confini.

Tale scontro era già in atto prima dello scoppio delle rivoluzioni della cosiddetta “Primavera Araba”, ma queste ultime ne hanno scardinato i fragili equilibri creatisi negli anni passati.

In particolare, la crisi del regime di Damasco determinata dalla rivolta popolare scoppiata nel paese ha aggiunto la Siria – finora unico anello mancante – a questo arco di instabilità che ormai rappresenta un “continuum” geografico che va dal Mediterraneo al Golfo Persico.

La crisi del regime siriano, ultimo baluardo del panarabismo dopo l’ “addomesticamento” dell’Egitto culminato con la firma del trattato di pace con Israele nel 1979, e dopo la caduta dell’Iraq di Saddam nel 2003, mette in gioco, agli occhi di alcuni arabi, l’ultima roccaforte del nazionalismo arabo e della resistenza contro l’egemonia israelo-americana. Agli occhi di altri, invece, mette in crisi l’asse iraniano-sciita che ha avuto mire egemoniche in Iraq, in Libano e in Palestina.

E’ lungo questa complessa faglia, in cui alla frattura fra sunniti e sciiti si somma quella fra repubblicani nazionalisti e monarchie,  e quella fra sostenitori della resistenza armata contro Israele (e contro gli Stati Uniti) e sostenitori del “negoziato a oltranza” con Tel Aviv (e dell’amicizia con Washington), che si dividono gli arabi in questo momento.

LA SIRIA COME CHIAVE DI VOLTA DEL CONFLITTO REGIONALE

Quando le rivolte della “Primavera Araba” travolsero il regime di Ben Ali in Tunisia e quello di Mubarak in Egitto, esse vennero salutate con favore non solo dai democratici nella regione mediorientale e in Occidente (cosa che infine spinse gli Stati Uniti ed i governi europei ad appoggiarle, anche se soltanto dopo molte esitazioni poiché i regimi dispotici rovesciati erano loro stretti alleati), ma anche dalle cosiddette forze della “resistenza araba”, come Hamas e Hezbollah, proprio perché i regimi in questione erano alleati dell’America “imperialista”.

Il regime iraniano, dal canto suo, tentò di dipingere le rivolte come un “risveglio islamico” assimilabile a quello che aveva portato alla Rivoluzione islamica del 1979 in Iran.

Successivamente, quando anche il regime siriano cominciò a vacillare sotto l’impatto della protesta popolare, il fronte arabo della “resistenza” si spaccò. Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, affermò che le proteste erano “il Medio Oriente che abbiamo sconfitto nel 2006 e che sta ritornando”. Nasrallah si riferiva al progetto neocon di ridisegnare la regione, promosso dall’amministrazione Bush con i carri armati in Iraq e con l’appoggio a Israele nella guerra in Libano dell’estate 2006. Riferendosi a questa guerra, l’allora segretario di Stato Condoleezza Rice aveva parlato di “doglie del parto del Nuovo Medio Oriente”.

Sulla base di questa interpretazione, Hezbollah si è posto al fianco del regime di Damasco, e ha invitato l’opposizione popolare in Siria ad accettare le offerte di “dialogo” avanzate dal regime.

Il partito sciita libanese è stato però duramente criticato per questa sua presa di posizione, mentre gran parte della stampa araba allineata con la “resistenza” ha assunto atteggiamenti di condanna nei confronti del regime siriano, e di sostegno più o meno esplicito alla protesta popolare. Di fronte all’evidenza delle brutalità e dei massacri commessi dalle forze leali ad Assad, malumori nei confronti della posizione assunta da Nasrallah erano serpeggiati nelle stesse file di Hezbollah.

L’altro grande movimento della resistenza araba, il palestinese Hamas, si è allontanato progressivamente dal regime di Damasco, ritenendo sempre più insostenibile la sanguinaria repressione compiuta dai suoi apparati di sicurezza, al punto che ormai si parla apertamente di una probabile partenza della leadership del gruppo palestinese da Damasco, dopo che il regime l’aveva ospitata per più di un decennio.

Le cose tuttavia sono in parte cambiate nuovamente negli ultimi mesi, quando contro il regime di Damasco si è coagulata una coalizione internazionale composta dagli Stati Uniti, dai paesi europei e dalle monarchie del Golfo (oltre che dalla Turchia) la quale ha dato il proprio appoggio al Consiglio Nazionale Siriano (CNS), un’organizzazione di rappresentanza dell’opposizione siriana costituitasi all’estero sotto l’influenza di paesi come Francia, Turchia e Qatar.

Ciò ha determinato una spaccatura nel fronte dell’opposizione in Siria, e più in generale ha provocato un ripensamento in alcuni fra i membri del fronte della “resistenza” che si erano schierati contro Assad.

Sia all’interno del fronte popolare in Siria che del fronte della “resistenza araba”, infatti, molti non si riconoscono nel CNS e nella coalizione internazionale che lo appoggia, costituita dalle monarchie autoritarie del Golfo ostili al fronte nazionalista arabo, e alleate dell’Occidente “imperialista”.

NUOVO CONCETTO DI SICUREZZA REGIONALE O NUOVO ‘SYKES-PICOT’?

Questa spaccatura a livello siriano si riflette in una spaccatura più ampia a livello arabo, che trova spazio sulle pagine dei giornali nei diversi paesi della regione.

Se, ad esempio, il saudita Abdulaziz Sager – presidente del Gulf Research Center, prestigioso think-tank con sede negli Emirati Arabi Uniti – dalle pagine del quotidiano al-Sharq al-Awsat rivendica senza mezzi termini la legittimità di un intervento internazionale eventualmente sancito dall’ONU per rovesciare il regime di Assad, l’egiziano Mohamed Hasanein Heikal, grande conoscitore della politica araba, in passato molto vicino al pensiero di Gamal Abdel Nasser, ha messo in guardia fin dalla scorsa estate sulla possibile imposizione di un nuovo “accordo di Sykes-Picot” alla regione, ovvero di un nuovo patto di spartizione dell’Oriente arabo fra le potenze occidentali e regionali (durante la prima guerra mondiale, con l’accordo segreto di Sykes-Picot, Francia e Gran Bretagna definirono le rispettive sfere di influenza in Medio Oriente in vista dell’imminente crollo dell’Impero Ottomano).

Il saudita Sager ritiene che il cambio di regime in Siria non sia soltanto un affare interno “poiché il ruolo giocato nei decenni passati dall’alleanza tripartita di Iran, Siria e Hezbollah nel determinare ed influenzare l’andamento degli eventi regionali non può essere ignorato”. Egli afferma a chiare lettere che l’obiettivo di un probabile intervento in Siria sarebbe quello di contenere l’Iran ed avrebbe la conseguenza di ridimensionare Hezbollah o addirittura di smantellarlo.

Dal canto suo, Heikal sostiene che ciò a cui sta assistendo la regione vada ben al di là della Primavera Araba, e rappresenti un cambiamento politico che avrà un profondo e pericoloso impatto sull’intero Oriente arabo. Egli ritiene che il cambio di atteggiamento di Washington nei confronti dei Fratelli Musulmani dopo la caduta di Mubarak rientri nell’ambito di un tentativo americano di creare un legame con un potenziale alleato sunnita nel conflitto che sembra profilarsi nella regione e che vede contrapposti un asse iraniano a un asse di paesi sunniti con in testa l’Arabia Saudita.

Heikal ritiene inoltre che l’Occidente stia pensando a una ridefinizione delle sfere di influenza in Medio Oriente, sulla falsariga di quanto avvenne ai tempi dell’accordo di Sykes-Picot. Questo nuovo schema si concilierebbe con le esigenze di Israele, mentre vedrebbe l’emarginazione dell’Iran.

La nuova suddivisione sarebbe inoltre incentrata sulle risorse, ed in particolare sul petrolio, e a differenza del passato vedrebbe la Turchia fra i vincitori invece che fra gli sconfitti.

Alla Turchia di cui parla Heikal si potrebbe poi aggiungere l’Arabia Saudita, alla luce di quanto affermato da Sager, il quale sostiene che l’intervento in Siria ed il contenimento dell’Iran rientrino in un “nuovo concetto di sicurezza regionale” volto ad assicurare la stabilità nella regione del Golfo.

Idee non dissimili da quelle di Sager sono espresse da un altro analista del Golfo, Riad Kahwaji, direttore dell’Institute for Near East & Gulf Military Analysis (INEGMA), il quale ricorda come il leader del CNS Burhan Ghalioun abbia affermato che il nuovo governo che salirà al potere in Siria dopo la caduta di Assad porrà fine al rapporto strategico che attualmente lega Damasco a Teheran e a Hezbollah.

Secondo Kahwaji, la mancata implementazione del piano diplomatico avanzato dalla Lega Araba farà perdere ad Assad l’ultima possibilità di evitare un’internazionalizzazione del conflitto. Kahwaji confida che l’avvicendamento tra il Libano e il Marocco al Consiglio di Sicurezza dell’ONU permetterà la presentazione di una forte risoluzione contro il regime di Damasco, visto che Rabat non opporrà le obiezioni che ha regolarmente avanzato Beirut.

Inoltre, abbastanza sorprendentemente, Kahwaji sostiene che i timori che un intervento militare in Siria possa trasformare il paese in una nuova Libia o in un nuovo Iraq siano infondati. Egli afferma che anzi ciò porterà a una rapida conclusione della crisi e a un’ordinata transizione politica.

Pochi commentatori, perfino nei paesi del Golfo, sarebbero in grado di condividere l’ottimismo di Kahwaji. Di certo non lo condivide l’analista egiziano Mohamed El-Saeed Idris, direttore dell’unità di studi arabi e regionali presso l’ “Al-Ahram Center for Political and Strategic Studies”, il quale sostiene che sulla caduta del regime siriano, al fine di indebolire l’Iran e spezzare l’asse con Hamas ed Hezbollah, punterebbe anche Israele.

Secondo Idris, “Israele punta su un ‘effetto domino’ che porterebbe al crollo dell’intero ‘asse del male’, visto che si sta lavorando al rovesciamento del regime in Siria ed allo stesso tempo al rovesciamento – o quantomeno alla resa – del regime iraniano, e che ciò a sua volta porterà a trasformare Hezbollah e Hamas in ‘bocconi digeribili’ non solo per Israele, ma per gli stessi nemici di Hezbollah in Libano e di Hamas in Palestina”.

Si potrebbero portare molti altri esempi a conferma dei punti di vista contrapposti e delle molteplici fratture esistenti nel mondo arabo a proposito della crisi siriana, e più in generale riguardo alla contrapposizione regionale che coinvolge anche l’Iraq, l’Iran e i paesi del Golfo.

Quel che è tristemente certo è che le legittime rivendicazioni democratiche del popolo siriano e degli altri popoli della regione rischiano di essere le prime vittime di queste fratture, della lotta di potere che ne consegue, e della possibile deflagrazione che molti vedono avvicinarsi nella regione.

http://www.medarabnews.com/2012/01/18/dalla-rivolta-siriana-alla-crisi-iraniana-l%e2%80%99oriente-arabo-si-spacca/

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