admin | January 22nd, 2012 – 3:19 pm
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Da Hajj Ali, ieri, c’era l’intero catalogo dell’inverno palestinese. Le arance di Gerico, le franzawi, e cioè le tarocche. E quelle che invece piacciono a me, un po’ aspre, da tagliare a fette e condire con sale olio e pepe. C’era la rucola selvatica, il jarjir, gli spinaci (sabaneh) versione palestinese, patate di campagna, mele del Golan. C’era, soprattutto, la hindbeh piccolina, freschissima, a mazzetti dentro una larga cesta di vimini.
Dente di leone, cicoria. Hindbeh, appunto. Un po’ più vicina a quello che a Roma è il cicorione. Purtroppo, però, non cresce come il cespo dai cui germogli si fa l’insalata più buona della tradizione romana, le puntar elle. Più chiara rispetto al cicorione, nella versione più tenera sembra quasi quell’erba che, quando ero piccola, mia madre usava chiamare la barba dei frati.
Fatta bollire per cinque minuti, ripassata con olio aglio e peperoncino, è una citazione quasi fedele della cicoria ripassata. Semmai, ha un sapore più raffinato, meno amaro. Nella tradizione culinaria palestinese, la si lava, si taglia piccola piccola e la si mescola con il sale, per levare – appunto – l’amaro di troppo. Si può mangiare, dunque, come una normale insalata, con l’immancabile limone, sale e olio rigorosamente di oliva (il migliore è sempre quello di Beit Jala, diventato ormai carissimo perché gli oliveti, nell’area di Betlemme, sono stati espropriati e sradicati per far posto al Muro di separazione costruito da Israele). La hinbeh, però, si può anche cuocere, con poche differenze rispetto alla ricetta italiana. Bollita, poi ripassata con olio e cipolla, al posto dell’aglio. A parte, fanno soffriggere della cipolla nell’olio sino a che non diventa bruna, e poi mescolano tutto assieme, con un po’ di coriandolo e limone.
Per una romana, la hindbeh ha la capacità di moderare la nostalgia del proprio paese. Non è che proprio riesca del tutto a pacificare, soprattutto quando Gerusalemme si incupisce sotto la pioggia costante e a dirotto descritta magistralmente da Amos Oz in Michael mio. Almeno, però, è una delle tante citazioni possibili in un posto, come Gerusalemme, in cui erbe, verdure e gastronomia riportano a una terra comune. La terra e il mare di mezzo.
La foto fa parte della collezione Matson, conservata presso la Library of Congress. La trovate tutta su internet: un viaggio incredibile in Palestina.
Mi sono accorta di non aver messo nessun brano di Danilo Rea, in questa playlist virtuale. Rimedio subito: Che cosa c’è.
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