Alessandro ha vinto Sanremo.
Sì, Alessandro lo ha vinto davvero, Sanremo. È arrivato primo, e non Ultimo.
Nessuno se ne è accorto, a dirla tutta, che Alessandro ha vinto Sanremo edizione 2019. Forse perché quel nome è troppo normale? A dire il vero, allora e anche oggi, l’Italia delle canzonette non ha avuto problemi ad ascoltare buona musica cantata da nomi “normali”. Normali per un’Italia che, anche nei nomi, normale non lo è mai stata. Mina, Milva, Ornella, Nilla, Dalida (ah, era egiziana, dimenticavo, italiana d’Egitto, egiziana al 100%). Paola (Turci), Giorgia, Loredana (Bertè), Mia (Martini, alias Domenica Bertè).
Potrei parlare allo stesso modo degli uomini, dei cantanti, dei nomi dei cantanti. Anche dei nomi dei cantanti che quest’anno hanno invaso come una truppa compatta (e senza vergogna alcuna) il palcoscenico dell’Ariston. E invece parlo delle donne che cantano, dei miti, quelli che Renga (Francesco) l’altra notte si è dimenticato, in un momento di amnesia. Donne dai nomi normali, quasi. Voci insuperabili, molte. Tanto che quei nomi sono decisivi, per il nostro piccolo olimpo musicale. Sono nomi talmente importanti che, come tutti i miti, fanno spesso parte di noi quando i corpi sono assenti dalle scene. Il mito per eccellenza, Mina, non avrebbe neanche bisogno di essere nominato.
Così, Alessandro, il nome così normale e diffuso e popolare, ha vinto Sanremo. Ma Alessandro ha scelto per sé – cantante – un altro nome. Un nome che immagino difficile. Un nome che significa appartenenza, perché è un cognome. E allo stesso tempo significa abbandono, come si è capito dalle interviste, dallo stesso testo della canzone con cui Alessandro ha vinto (e meritatamente!) Sanremo, dai ringraziamenti. Pochi “grazie” detti di fretta e dunque ancor più profondi: alla madre, per esempio. E non al padre.
Alessandro poteva scegliere di chiamarsi Alessandro, quando indossa il suo costume di cantante-rapper-artista-performer. Invece ha fatto la scelta più spiazzante. Ha scelto per sé un nome che, in questi ultimi anni, potrebbe essere usato come un’etichetta. Oppure come una vera e propria macchia.
Qualsiasi nome è un codice identificativo. Una targa burocratica. Il ricordo di un’appartenenza. Mahmood è anche questo. E purtroppo è diventato ben più di questo. Non solo dopo Sanremo, ma anche nei tanti anni in cui la lingua araba e i nomi arabi sono diventati l’etichetta di ciò che poteva definirsi in maniera vaga “pericolo”. Per qualche ignorante con folle virtuali al seguito, Mahmood è diventato Maometto. Come se Mahmud fosse uguale a Muhammad, pur condividendo la stessa radice consonantica e il significato: “degno di lode”. Mahmud, che si sappia, non è Mohammed, e non è Maometto (termine che mai si dovrebbe usare, oggi, per l’utilizzo spregiativo che se n’è fatto negli scorsi secoli).
Mahmood è soprattutto, oggi, un nome arabo, di quelli che si storpiano con facilità, come Ahmed. È uno di quei nomi di cui, dappertutto in Italia, si fa la pantomima, accompagnandolo a quale suono gutturale che dovrebbe rappresentare l’arretratezza di circa 300 milioni di esseri umani accomunati da una definizione. Essere arabi.
Mahmood è, per rendere ancora più difficile la vita di chi lo indossa in Italia, un nome arabo maschile, appaiato nella realtà a un ragazzo che ha sicuramente diverse gradazioni di identità, tutto un mondo multiplo e sorprendente. Peccato che, per la vulgata corrente, subdola e vigliacca, un ragazzo di nome Mahmood potrebbe invece nascondere un pericolo, un sospetto, un retropensiero, un cattivo pensiero, una “cellula dormiente”. Qualsiasi cosa che, d’acchito, non si imputerebbe a Mario, Giovanni, Giuseppe.
A pensarci, vengono i brividi. L’Italia ha paura dei nomi, dopo anni di lavaggio del cervello, fatti non certo da chi ora è al governo, ma da chi ha gestito la narrazione della cronaca, della Storia, delle relazioni tra le persone negli ultimi decenni. Ci sono, infatti, voluti decenni perché il razzismo – quello che ha paura dei nomi – si incistasse nel corpo di un intero paese. Per Malika Ayane, anche lei con una componente araba nel suo nome, nel suo corpo e nella sua anima, nessuno si era stracciato le vesti. Malika, la Regina, non è stato un nome che ha spaventato quanto Mahmood. Malika appariva esotica. Mahmood è diverso. Forse non per molti e non per tutti. Per quelli che intossicano social e rete, sì.
Mahmood il nome, ora, nasconde tutto. Nasconde soprattutto il ragazzo Mahmood. Che – ne sono certa – sa bene, e sulla sua pelle, quanto quel nome lo abbia segnato. Sin da quando, da qualche parte, qualcuno gli ha chiesto come si scriveva quel cognome in cui la H era solo un orpello, per moltissimi italiani-italiani, e non una aspirata. Ma-H-mud, scritto però con quelle vezzose due O che in italiano-italiano si pronunciano OH (che meraviglia!).
Alessandro ci sta però donando, da ore e da giorni, una lezione grande, fatta di eleganza e di sguardi sorpresi dalla vita. Perché non ha scelto di omologarsi dietro un tranquillo Alessandro, ma di portare con orgoglio un nome-cognome che l’ha certo fatto soffrire, (immagino) più per le scelte individuali di suo padre che per le narrazioni collettive tossiche di questi ultimi decenni. Ha scelto Mahmood, e con questo nome ha scelto il suo cuore fatto di tante cellule, pezzi di identità, sonorità arabe, estensioni della voce, la periferia di Milano, il suo accento milanese profondo e contemporaneo, le radici sarde solide e (immagino) colme di affetto.
Alessandro ha vinto Sanremo indossando il nome di Mahmood. E Mahmood ha cantato una canzone piena di sofferenza, dignità, orgoglio e tenerezza. Dice di non conoscere l’arabo, eppure in quel “ragazzo mio, ragazzo mio, amore mio, vieni qui” (waladi waladi habibi tahali hena) c’è tutta la profondità di una lingua lontana eppure intima, la lingua che si usa verso i bambini piccoli. Come un mondo che non si è riusciti ad agguantare.
Il nostro italiano al 100%, Alessandro e Mahmood, ci ha dato una speranza. La speranza che i ragazzi italiani, alcuni o molti tra loro, ci potrebbero salvare tutti.
La foto è sull’account twitter di Mahmood.
Di Alessandro e di Mahmood – di Paola Caridi
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