01 feb 2018
Le forze di sicurezza nazionale hanno tentato per anni di uccidere il leader dell’OLP. Ora, ex agenti raccontano la storia di come hanno fallito, e fino a che punto stavano per spingersi per riuscirci. Dalla Seconda Guerra mondiale, Israele ha utilizzato l’assassinio e l’omicidio mirato più di ogni altro Paese occidentale, in molti casi mettendo a rischio la vita di civili
di Ronen Bergman – New York Times
Traduzione di Elena Bellini
Roma, 1 febbraio 2018, Nena News – (qui la prima parte) A quel punto, Sharon stava lavorando a un progetto ben più ambizioso. Il 6 giugno, l’esercito israeliano fece irruzione in Libano attraversando il confine. Un esercito di 76mila uomini, 800 carri armati e 1.500 mezzi corazzati avanzò verso nord e, nel giro di due settimane, aveva già dato il via a un assedio terrificante e al bombardamento dei quartieri occidentali di Beirut.
Sharon presentò la guerra come una modesta incursione, volta solo a eliminare l’artiglieria dell’OLP che minacciava gli israeliani, ma di fatto aveva una visione molto più radicale: le forze israeliane avrebbero conquistato il Libano ed espulso i palestinesi verso la Giordania, dove sarebbero stati una maggioranza in grado di creare uno Stato palestinese al posto del regno hashemita. Questo, calcolò Sharon, avrebbe spazzato via la pretesa palestinese di un Stato in Cisgiordania, che sarebbe quindi diventata parte di Israele. In questo piano fantasioso c’era solo un altro elemento cruciale: uccidere Yasser Arafat. Sharon era convinto che, in una guerra contro un’organizzazione terrorista, i simboli fossero importanti quanto la conta dei morti.
Per questo venne creata una squadra speciale, nome in codice Salt Fish (Pesce Salato). Sharon nominò supervisori i suoi due esperti in operazioni speciali, Dagan e Rafi Eitan, che era consulente del Ministro della Difesa per l’Antiterrorismo. “Pensai che colpire lui avrebbe cambiato il corso della storia – mi disse Dagan – Arafat non era solo un leader palestinese, ma una sorta di padre fondatore della nazione palestinese. Uccidere lui avrebbe fatto esplodere gran parte dei conflitti interni all’OLP e ne avrebbe ostacolato pesantemente, da allora in avanti, la capacità di prendere una qualsiasi decisione strategica”.
Il Tenente Colonnello Uzi Dayan, comandante uscente del Sayeret Matkal, l’unità di commando di élite dell’esercito israeliano, assunse il comando di Salt Fish. L’AMAN intercettò le conversazioni telefoniche a Beirut e cercò di tracciare gli spostamenti di Arafat. La modalità d’attacco privilegiata sarebbe stata un raid aereo. “Era una missione veramente difficile” disse Dayan. “Dovevamo raccogliere le informazioni da varie fonti per capire quale edificio o rifugio fosse quello giusto, localizzarlo sulla mappa, stringere il campo alle coordinate esatte e trasmetterle all’aviazione, dandole abbastanza tempo per far decollare un caccia e bombardare”.
Arafat capì che non era una coincidenza quel cadere di bombe su luoghi in cui stava per entrare o che aveva appena lasciato, e iniziò a modificare le sue abitudini. La squadra, sempre più disperata, escogitò piani sempre più provocatori.
Il 3 luglio 1982, Ury Avnery, giornalista di una testata israeliana di sinistra, con un reporter e un fotografo, attraversò il confine ed entrò a Beirut per intervistare Arafat nel centro della città. L’incontro era molto controverso in Israele. Arafat era considerato il peggior nemico del Paese e questo era il suo primo incontro ufficiale con gli israeliani. La squadra Salt Fish decise di approfittare dell’occasione e lasciare che i tre ignari giornalisti guidassero un gruppo di sicari dritti da Arafat. Scoppiò una discussione tra i membri di Salt Fish: era giusto mettere in pericolo, e probabilmente uccidere, dei cittadini israeliani? La risposta, decisero, era che sì, era giusto. Ma Arafat sospettava che il Mossad stesse tenendo d’occhio Avnery. Le sue guardie del corpo adottarono severe contromisure per confonderli e la squadra Salt Fish venne seminata nei vicoli di Beirut sud.
Con il passare dei giorni, Sharon e Raful Eitan (il generale dell’IDF) aumentarono la pressione sull’aviazione e sulla squadra Salt Fish perché arrivassero ad Arafat. “Ci sembrava che fosse una questione personale per Sharon – disse Ivry – Pensai che era un casino, con il rischio di colpire civili”. Uzi Dayan aveva le stesse perplessità: “Arafat si è salvato grazie a due cose – disse – La sua sconfinata buona sorte e me”.
Dayan pensava che Arafat fosse un obiettivo legittimo solo se questo non avesse significato ammazzare un sacco di civili. “Raful era solito avere degli scoppi d’ira – continuò Dayan – Mi chiamò e mi disse ‘Mi risulta che tu abbia informazioni sul tal posto. Perché gli aerei non sono in volo?’ Risposi che era impossibile perché c’erano un sacco di persone lì intorno. Raful disse: ‘Non ci pensare. Mi prendo io la responsabilità.’ Non ero disposto a permetterlo. Non mi sarei fatto insegnare l’etica della guerra da Raful”.
Eitan avrebbe poi ripreso Dayan dicendogli che non aveva l’autorità per decidere se sganciare o meno una bomba. Ma Dayan avrebbe ugualmente trovato il modo di intervenire nel processo decisionale. “Tutto ciò che dovevo fare era comunicare quando l’obiettivo era a portata, secondo l’intelligence – disse – Quindi, da quel momento in avanti, ogni volta che sapevamo che il raid avrebbe causato numerose vittime civili, dicevamo che l’obiettivo non era a tiro, secondo il nostro punto di vista”.
Forse intuendo questa resistenza, Eitan, ad un certo punto, decise di intraprendere un’azione più diretta. La sera del 4 agosto, chiese al capo del Dipartimento per le operazioni aeronautiche, Aviem Sella, di andare a trovarlo. I due erano molto amici, ed Eitan aveva un debole per Sella, promettente ufficiale papabile come futuro comandante dell’aviazione. Eitan salutò Sella e gli disse che il giorno seguente non sarebbe andato al lavoro a Canary come al solito, ma che “avrebbero fatto un viaggio”.
“Qualcosa tipo il nostro ultimo viaggio insieme?” chiese Sella, alludendo alla visita a Beirut in maggio, in preparazione dell’invasione e dell’operazione per uccidere Arafat. “Qualcosa di simile – rispose Eitan – Ma questa viene dai piani alti. Vediamoci domani a Hatzor”, base aeronautica a sud. “Tu piloterai l’aereo, io ti dirò dove andare e gestirò il sistema di combattimento. Bombarderemo Beirut.”
Sella pensò di non aver sentito bene. “Era totalmente assurdo”, mi disse. “Ero sconvolto. Se qualcuno mi avesse detto che il capo di stato maggiore, che non è un aviatore, si stava prendendo una pausa dalla gestione della guerra per assumere il comando del dipartimento per le operazioni dell’aeronautica mentre bombardavano Beirut, non ci avrei mai creduto”.
Il giorno dopo, i due si incontrarono a Hatzor, salirono a bordo di un caccia F-4 e decollarono con altri tre aerei in una missione per bombardare un palazzo di uffici a Beirut ovest in cui, secondo gli agenti di Salt Fish, si pensava che Arafat stesse tenendo una riunione. “Raful stava così così, credo che si stesse sentendo vagamente male – disse Sella – Ho impostato io rotta. Lui si è occupato del sistema di munizioni, che rispetto a oggi era primitivo. Abbiamo eseguito due raid sul target, e poi un’altro giro per vedere se lo avevamo colpito”.
“Raful era contento, e volammo a casa in Israele”. Arafat si salvò un’altra volta grazie alla tempistica: le bombe erano cadute subito prima che lui arrivasse. Comunque, per Sharon il proposito di uccidere Arafat non vacillò mai. Dopo la fine dei combattimenti a Beirut e l’evacuazione dei leader dell’OLP e delle loro truppe, Sharon e Eitan “stavano morendo, semplicemente morendo, dalla voglia di ucciderlo”, disse Amos Gilboa, allora generale di brigata e capo della Divisione Ricerche di AMAN. La squadra di Sharon aveva realizzato, però, che un omicidio alla luce del sole avrebbe solo trasformato Arafat in un martire.
Imperterrito, Sharon incaricò l’intelligence di trovare un modo più discreto per sbarazzarsi del leader dell’OLP. L’operazione Salt Fish si trasformò nell’operazione Goldfish. Ma la missione restava la stessa, e Sharon ordinò che le venisse data priorità massima. Ogni giorno, la squadra Goldfish si riuniva nell’ufficio di Gilboa. “C’erano migliaia di questioni cento volte più importanti”, ricordò Gilboa. Ma Sharon insistette.
Anche il mezzo disastro dell’ottobre 1982 – con il dito nervoso di un pilota che stava per ammazzare un equipaggio, un medico e trenta bambini feriti – non indebolì Sharon né lo dissuase dall’idea di colpire Arafat in volo. Anzi, divenne ancor più avventato. Quando il Mossad comunicò che Arafat viaggiava sempre più spesso su aerei di linea, con l’OLP che spessp comprava tutti i biglietti di prima o business class per lui e i suoi, Sharon decise che quei voli erano obiettivi legittimi. L’aereo avrebbe dovuto essere abbattuto mentre volava su mare aperto, lontano dalla costa, in modo che agli investigatori ci sarebbe voluto del tempo per individuare il relitto e stabilire se fosse stato colpito da un missile o fosse caduto per un guasto tecnico. Sarebbe stata preferibile l’acqua profonda, per rendere il recupero ancor più difficile. (Oded Shamir, all’epoca assistente di Sharon, dice che tutti gli aerei target erano voli privati. Tuttavia, almeno tre agenti presenti a questi episodi mi hanno detto che alcuni di quegli aerei erano voli di linea).
L’aeronautica mise a punto un piano dettagliato. Trovarono un punto, sul Mediterraneo, in cui c’era traffico commerciale ma non copertura radar continua da parte di nessuna nazione e dove il mare sottostante era profondo tre miglia, il che rendeva le operazioni di salvataggio davvero difficili, forse impossibili. Mettere in atto l’attacco su questo punto ideale, comunque, voleva dire che le possibilità sarebbero state davvero scarse.
Dato che l’operazione si sarebbe svolta lontano dallo spazio aereo israeliano, fuori dalla portata dei radar e delle radio israeliane, l’aeronautica avrebbe dovuto organizzare una postazione di comando aerotrasportata, ovvero un Boeing 707 equipaggiato con radar e strumenti di comunicazione. Sella avrebbe guidato l’operazione da questo aereo.
Agli ordini diretti di Sharon, quindi, la sorveglianza su Arafat era mantenuta in modo costante, e quattro caccia F-16 e F-15 vennero messi in allerta intercettazione. Nel corso di nove settimane, da novembre 1982 all’inizio di gennaio 1983, questi caccia decollarono almeno cinque volte per intercettare e distruggere aerei su cui si pensava ci fosse Arafat, solo per poi essere richiamati subito dopo il decollo.
Gilboa espresse più di una volta la sua ferma opposizione a queste operazioni. “Non avevo dubbi che l’aeronautica l’avrebbe fatto nel miglior modo possibile – disse – ma io avevo una responsabilità in più”. Il compito di Gilboa era valutare le implicazioni politiche, militari ed economiche di ogni operazione. “Dissi al capo di stato maggiore Eitan che avrebbe potuto portare lo Stato alla rovina a livello internazionale se si fosse saputo che avevamo abbattuto un volo civile”.
In ogni caso, i comandanti dell’aeronautica ostacolarono intenzionalmente l’operazione, rifiutando di obbedire a ordini che ritenevano palesemente illegali. “Quando ricevemmo l’ordine – disse Sella – andai a parlare con Eitan. Gli dissi ‘Capo di stato maggiore, non intendiamo procedere. Semplicemente non lo faremo. Capisco che il Ministro della Difesa è quello che comanda, qui. Nessuno si permette di opporsi a lui, e quindi renderemo l’operazione tecnicamente impossibile.’ Raful mi guardò e non disse mai nulla. Presi il suo silenzio come assenso.”
Una volta, con un volo di linea che si pensava trasportasse Arafat da Amman alla Tunisia sul Mediterraneo, e con i caccia israeliani in coda, Eitan chiese a Gilboa se pensava che l’obiettivo fosse a bordo al di là di ogni ragionevole dubbio. I due erano in piedi nella sala centrale del Canary. “Capo di stato maggiore, vuole davvero sapere cosa penso?” chiese Gilboa. Eitan annuì. Gilboa sentiva il cuore che gli martellava nel petto. Temporeggiò mentre soppesava i diversi motivi di credere che Arafat potesse essere a bordo, e poi quelli che lo portavano a dubitarne.
Eitan era impaziente. “Gilboa – ringhiò – sì o no?”. “Il mio istinto”, disse Gilboa, “mi dice di no”. Eitan si voltò e andò verso il telefono rosso di sicurezza, sul lato della stanza. Disse a Sharon che l’operazione avrebbe dovuto attendere un altro giorno.
Un’altra volta, le radio a bordo della postazione di comando, il Boeing 707, vennero intenzionalmente settate sulle frequenze sbagliate, interrompendo le comunicazioni per un tempo sufficiente a rendere l’operazione impraticabile. Un’altra volta ancora, Sella semplicemente ingannò Eitan, informandolo che l’aereo target era stato identificato troppo tardi e c’era il pericolo che l’intercettazione venisse scoperta. Nelle restanti occasioni, “la tirammo semplicemente in lungo finché l’aereo non lasciava l’area in cui avremmo potuto colpirlo senza però capire cosa sarebbe successo”.
Alla fine, comunque, i piani di Sharon per compiere un crimine di guerra internazionale deragliarono a causa di un suo precedente comportamento privo di scrupoli. Sotto forte pressione da parte dell’opinione pubblica israeliana, e dopo pesanti critiche a livello internazionale, Begin fu costretto ad aprire un’inchiesta giudiziaria sul massacro dei campi profughi di Beirut. La commissione stabilì che la Falange era direttamente responsabile del massacro, ma sentenziò che alcuni israeliani, tra cui Sharon, dovevano essere ritenuti altrettanto responsabili per aver permesso alla Falange di entrare nei campi quando era chiaro che l’organizzazione ne avrebbe approfittato per commettere atrocità. Sharon fu costretto a dare le dimissioni da Ministro della Difesa. “Poco a poco – disse Gilboa – aumentò la consapevolezza che Arafat era una questione politica, e non doveva essere considerato un obiettivo per un attentato”.
Sharon, ovviamente, si riprese dal colpo e, nel 2001, divenne Primo Ministro israeliano. Gradualmente, giunse a un’intesa con l’amministrazione di G.W. Bush, grazie alla quale gli USA avrebbero sostenuto Israele anche durante il dispiegamento di una massiccia campagna di assassinii mirati, la più grande nella storia del Paese. In cambio, Sharon avrebbe messo fine alla colonizzazione dei Territori palestinesi occupati. E Arafat sarebbe stato intoccabile.
La campagna sembrò funzionare, Hamas dichiarò una tregua e smise di inviare uomini bomba. Ma anche Sharon cambiò radicalmente, iniziando per la prima volta a prendere in considerazione una soluzione politica alla questione palestinese. “Nel momento in cui Sharon capì che gli insediamenti costituivano un fardello e non un vantaggio – disse Don Weissglas, capo dello staff di Sharon e suo stretto consigliere – non ebbe problemi ad farli evacuare e a girare le spalle ai coloni”. Sharon, il falco, “voleva uscire di scena come un generale esausto divenuto un grande pacificatore”.
Sharon era arrivato ad accettare che non c’era modo di impedire la creazione di uno Stato palestinese indipendente, ma ciò non fece diminuire il suo odio per il loro leader. In Israele, ci fu una nuova ondata di discussioni su come trattare con Arafat, e vennero avanzate molte ipotesi: esiliarlo su un’isola deserta, pubblicare in rete video imbarazzanti su di lui, o rendere pubblici i molti documenti sequestrati nel suo studio in cui ordinava il trasferimento di fondi ai terroristi. Alcuni capi dell’intelligence e dell’esercito, e anche ministri del governo, pensavano ancora che dovesse essere ucciso.
Il 22 marzo 2004 un elicottero d’attacco israeliano fece fuori lo sceicco Ahmed Yassin nelle strade di Gaza City. Yassin era il fondatore di Hamas e, come Arafat, un leader politico di fama mondiale. Il 23 aprile, Sharon disse a un giornalista israeliano di non essere più legato agli accordi con Bush del 2001, dichiarando “questo mio impegno non esiste più”. Alla richiesta di chiarire se intendeva colpire Arafat, rispose: “Non penso che questa faccenda possa essere più chiara di così”.
E quindi, all’improvviso, Arafat, l’uomo che era riuscito ad eludere così tante volte la morte, alla fine morì per una misteriosa infezione che gli causò un ictus. Morì l’11 novembre 2004, a 75 anni. Ancora oggi si discute, tra esperti di medicina forense e direttori di laboratorio, sulla causa di morte e se siano o non siano state trovate tracce di polonio, una sostanza radioattiva che è stata utilizzata in casi di omicidio, sui vestiti e sui resti di Arafat. Portavoce israeliani negarono categoricamente che Israele fosse in qualche modo coinvolto nella morte di Arafat.
In una delle nostre ultime conversazioni, prima che morisse di cancro all’inizio del 2016, Meir Dagan provò a spiegarmi perché Sharon aveva passato così tanta parte della sua vita provando ad ammazzare Arafat, anche quando era ormai chiaro che ucciderlo sarebbe servito a ben poco visti i problemi decisamente più gravi che affliggevano il suo Paese. “Sharon vedeva Arafat come un assassino, un assassino di ebrei”, disse, “Sharon stesso era un uomo piuttosto duro, insensibile, a volte un vero bastardo. Ma si prendeva a cuore ogni vittima di ogni attacco terroristico. C’erano delle cose che semplicemente non poteva lasciar passare”.
Ronen Bergman è un collaboratore del giornale, Questo articolo è un estratto di “Rise and Kill First: The Secret History of Israel’s Targeted Assassinations”, che verrà pubblicato questo mese da Random House
Di come Arafat riuscì ad eludere la “macchina omicidi” di Israele. Seconda Parte
http://nena-news.it/di-come-arafat-riusci-ad-eludere-la-macchina-omicidi-di-israele-seconda-parte/
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