Dignità

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February 26th, 2014 – 8:11 pm

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Yarmouk. Gli uomini e le donne del campo profughi palestinese, a Damasco, si assiepano in attesa di ricevere (ma come? Tutti? Qualcuno sarà escluso?) gli aiuti umanitari dopo mesi di assedio. Aiuti umanitari distribuiti dall’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che si occupa da decenni dei rifugiati palestinesi. Una scena biblica, dantesca, infernale. Scegliete voi l’aggettivo che più sentite appropriato. Io questa foto me la guardo da questa mattina, da quando Ben Wedeman della CNN, uno dei migliori tra noi (giornalisti che si occupano di Medio oriente), l’ha messa sulla sua bacheca Facebook. Me la guardo, e mi sembra talmente irreale da essere più simile a un quadro che a uno scatto fotografico da breaking news.

La disperante intensità di questa foto mi conferma che ora non è il tempo dei giornalisti. È, ancora una volta, il tempo degli artisti, perché loro – fotografi o registi o scrittori – riescono a raccontare la guerra come noi non siamo più capaci. Per capire la guerra, ora, c’è bisogno di emozione più che di cronaca, ahimè. Come fu per la prima guerra mondiale, e i poeti e gli scrittori che ne descrissero la crudeltà. Non mi rileggevo Veglia di Ungaretti dai tempi dell’università. Ora la leggo con altri occhi.

Cima Quattro il 23 dicembre 1915
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita

Non è una critica a chi, in queste ore, è in Siria a tentare di squarciare il velo di silenzio e di colpevole indifferenza sulla tragedia in atto, o chi è in una prigione egiziana in quanto giornalista.

È una semplice considerazione che riguarda la nostra capacità (in quanto pubblico) di assumere dentro noi stessi il dolore.

Gli sguardi, i visi di questa umanità dolente, le case sventrate, la polvere, la fame… Tutto è invisibile perché non lo facciamo nostro. Poi, un giorno, magari ci diranno che questa o un’altra foto sono state ritoccate, oppure che non sono di Yarmouk ma di un posto lì vicino. E noi leggeremo su FB fiumi di parole sull’abuso del Photoshop invece che sui nomi e la vita di coloro che sono morti.

Dobbiamo ritrovare la commozione, la pietà e la condivisione dei destini degli altri per comprendere la guerra. Ora. Oltre la cronaca dei numeri. È sempre stato così, ma adesso, di fronte a questa foto, mi sembra che il limite del nostro imbarbarimento sia stato definitivamente superato.

Dignità

http://invisiblearabs.com/?p=5927

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