Diritti, non speranze

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Omar Aveva 66 anni. Era tranquillo a casa sua. Circondato dall’affetto dei suoi familiari. Un’unità scelta dell’esercito israeliano ha fatto irruzione nella sua casa di Hebron. Omar era a letto. Una serie interminabile di raffiche di mitra l’ha freddato. Colpi all’addome e alla testa. Come un cane. I suoi bambini sono rimasti paralizzati dall’orrore. Sua moglie Sobheye si trovava in un’altra stanza a pregare.

Il mattino seguente l’esercito israeliano ha ufficialmente ammesso che è stato un errore. Capita. Questa è la notizia di prima pagina di ogni santo giorno in Palestina: un quotidiano diventato semplicemente un incubo di paura. La paura di vivere che i giovani di Gaza hanno provato per l’ennesima volta a raccontarci in un “Appello” che scuciamo dalle loro bocche come Editoriale di questa nostra newsletter:

Abbiamo paura. Qui a Gaza abbiamo paura di essere incarcerati, picchiati, torturati, bombardati, uccisi. Abbiamo paura di vivere, perché dobbiamo soppesare con cautela ogni piccolo passo che facciamo, viviamo tra proibizioni di ogni tipo, non possiamo muoverci come vogliamo, né dire ciò che vogliamo, né fare ciò che vogliamo, a volte non possiamo neanche pensare ciò che vogliamo perché l’occupazione ci ha occupato il cervello e il cuore in modo così orribile che fa male e ci fa venire voglia di piangere lacrime infinite di frustrazione e rabbia.

Quando riusciamo ad avere di fronte a noi alcuni di questi giovani, come pochi mesi fa nella vivacissima Università di Hebron, restiamo ammirati per la profondità della loro coscienza di donne e uomini chiamati a resistere senza odio per l’oppressore, con l’ostinato obiettivo di rompere il silenzio con cui noi avvolgiamo questo lenta, progressiva distruzione di un popolo.

Vogliamo urlare per rompere il muro di silenzio, ingiustizia e indifferenza, come gli F16 israeliani rompono il muro del suono; vogliamo urlare con tutta la forza delle nostre anime per sfogare l’immensa frustrazione che ci consuma per la situazione in cui viviamo; siamo come pidocchi stretti tra due unghie, viviamo un incubo dentro un incubo, dove non c’è spazio né per la speranza né per la libertà. Non vogliamo odiare, non vogliamo sentire questi  entimenti, non vogliamo più essere vittime. Questo non è il futuro che vogliamo! Vogliamo tre cose. Vogliamo essere liberi. Vogliamo poter vivere una vita normale. Vogliamo la pace. È chiedere troppo? Siamo un movimento per la pace fatto dai giovani di Gaza e da chiunque altro li voglia sostenere e non si darà pace finché la verità su Gaza non venga fuori e tutti ne siano a conoscenza, in modo tale che il silenzio-assenso e l’indifferenza urlata non siano più accettabili.

Per questa voglia di “vita normale” qualche giorno fa Shaban ci ha consegnato un testamento agghiacciante, cinque minuti prima di morire. Il 10 gennaio, nel primo pomeriggio, Shaban era come sempre nei suoi campi a lavorare. I soldati israeliani lo hanno miseramente freddato sparando contro un gruppo di contadini al lavoro nei campi di Beit Hanoun, a Nord della Striscia di Gaza.

Solo pochi minuti prima, una giovane cooperante italiana era con lui. (http://it.peacereporter.net/articolo/26277/ Le+ultime+parole+di+Shaban).

– Non hai paura degli israeliani che sparano? “No, non m’importa degli spari. Se succede qualcosa di brutto noi esseri umani moriamo una volta sola, e solo Dio sa quando arriverà la mia ora per morire. Io dormo qui alcune volte e non m’ importa di morire, sento sempre i carri armati e bulldozer invadere la mia terra e non mi importa più quello che fanno”.

Vittorio Arrigoni conosceva bene Shaban:

“Shaban aveva fatto fiorire alberi da frutta nel suo giardino, limoni, aranci e clementine. I frutti della terra erano generosi e nonostante l’occupazione Shaban conduceva una vita serena. Tutto era cambiato però da quella notte del 2003, quando in pieno Ramadan, bulldozer e carri armati israeliani avevano invaso i suoi campi distruggendo tutte le sue colture e sradicando i suoi preziosi alberi: il frutto di 30 anni di duro lavoro raso al suolo in meno di 3 ore. Al termine dell’offensiva israeliana Piombo Fuso, l’anziano contadino non se la sentiva più di dormire tutte le notti nella casa al confine per via delle frequenti incursioni israeliane. Aveva preso allora in affitto un minuscolo bugigattolo nel campo profughi di Jabalia nel quale viveva stipato con la suan umerosa famiglia, una decina di persone.

D’abitudine Shaban iniziava il lavoro nei campi da poco dopo il sorgere l’alba fino a poco prima del tramonto. Ogni giorno per quarant’anni, fino a lunedì scorso. Appena il tempo di un arrivederci ai visitatori stranieri e Shaban era già sulla sua terra per riprendere l’asino legato ad un arbusto. Un cecchino israeliano piazzato su una torretta di osservazione a 300 metri gli ha sparatocontro tre colpi: il primo lo ha centrato al collo, gli altri due al torace”.

Mancano le parole per raccogliere un testamento così. Solo ai giovani, che vivono tesi verso un futuro rivendicato non tanto o non solo come speranza, ma come un diritto, non mancano le parole per elencare ciò che fa di questa vita un inferno:

Non sopportiamo più le notti nere come il carbone con gli aerei che sorvolano le nostre case; siamo stomacati dall’uccisione di contadini innocenti nella buffer zone, colpevoli solo di stare lavorando le loro terre; dagli uomini barbuti che se ne vanno in giro con le loro armi abusando del loro potere, picchiando o incarcerando i giovani colpevoli solo di manifestare per ciò in cui credono; del muro della vergogna che ci separa dal resto del nostro Paese tenendoci ingabbiati in un pezzo di terra grande quanto un francobollo; di chi ci dipinge come terroristi, fanatici fatti in casa con le bombe in tasca e il maligno negli occhi; dell’indifferenza da parte della comunità internazionale, i cosiddetti esperti in esprimere sconcerto e stilare risoluzioni, ma codardi nel mettere in pratica qualsiasi cosa su cui si trovino d’accordo; di una vita impossibile, imprigionati dagli israeliani, picchiati da Hamas e completamente ignorati dal resto del mondo.

Un ultimo spazio, tra queste righe e nel cuore, lo vogliamo riservare alla memoria di Jawaher, donna straordinaria, uccisa a Bil’in con i gas lacrimogeni sparati ogni venerdì contro civili disarmati. Anche noi di Bocchescucite conosciamo quei gas. Più volte, come qualche mese fa, ci siamo uniti alla protesta popolare di palestinesi, israeliani e internazionali ostinati nella forza della resistenza nonviolenta. Che si oppone alla crudeltà di coloro che firmano, indisturbati, le aggressioni più gravi, mentre sono sempre più “colpiti” dalla protesta nonviolenza di un popolo oppresso.

Bocchescucite

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