Dove va Hamas?

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admin | January 13th, 2012 – 2:27 pm

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Adesso è ufficiale. La Giordania sta cercando un modo per consentire agli esponenti di Hamas di poter risiedere nel regno hashemita. Lo ha detto, in una intervista a Time Magazine, il primo ministro giordano, confermando i rumours delle ultime settimane. Risiedere come singoli, senza spostare formalmente gli uffici del movimento islamista radicale palestinese ad Amman: questa sarebbe la formula scelta dalla Giordania, per non interrompere la politica seguita nei confronti di Hamas soprattutto a partire dal 1997, dal fallito attentato contro Khaled Meshaal. Allora, ma già sin dalla firma dell’accordo di pace tra Israele e Giordania, re Hussein aveva sempre più limitato la libertà di operare di Hamas. Poi, a Hamas fu imposto di andarsene (chi vuole approfondire, può leggersi, in inglese, il testo di Azzam Tamimi su Hamas, che entra nei dettagli) e il movimento aprì l’ufficio a Damasco.

Consentire la residenza ai singoli non vuol dire ospitare di nuovo Khaled Meshaal, come fa comprendere anche il rinvio del viaggio del numero uno di Hamas ad Amman, richiesto dai giordani perché re Abdallah è atteso a Washington per un incontro col presidente Obama (indiscrezioni di Al Jazeera). Tutto spostato, insomma, a dopo la metà di gennaio.

Ora, con la Siria totalmente instabile, Hamas deve di nuovo spostare la sede. Da mesi, almeno da maggio, si parla di questo trasferimento. Prima si era ipotizzata una divisione in tre tronconi, tra Turchia, Qatar ed Egitto. Ora, sempre di più, si lega il trasferimento a un cambiamento sostanziale della forma organizzativa di Hamas. Non più legata, com’è stata storicamente, ai Fratelli Musulmani giordani, ma come organizzazione autonoma. I fratelli musulmani palestinesi sono stati considerati, dopo il 1948 e il dominio giordano sulla Cisgiordania, come una formale emanazione dell’Ikhwan giordano. Emanazione formale, perché la stessa nascita di Hamas nel 1987 è stata decisa contro il parere dei fratelli musulmani di Amman.

La rivoluzione egiziana, la maggioranza relativa conquistata dall’Ikhwan nei tre turni elettorali per la camera bassa in Egitto, la vittoria di Rachid Ghannouchi in Tunisia stanno cambiando – pour cause – la strategia statunitense verso una parte del Nord Africa. E l’influenza si sente anche in Medio Oriente. Dopo aver combattuto l’islam politico per decenni, Washington deve capire come aprire un canale con i fratelli musulmani: lo si vede dai sempre più frequenti abboccamenti con l’Ikhwan egiziano, l’ultimo da parte del numero due del dipartimento di stato, William Burns, che nella sua visita al Cairo ha incontrato Mohammed Morsi, ha incontrato il capo del Partito Libertà e Giustizia, espressione dell’establishment della Fratellanza Musulmana (due consigli di lettura, entrambi del Carnegie Endowment for Peace: Nathan J. Brown e Ashraf el Sherif).

E Hamas? E’ ancora troppo presto per parlare di sdoganamento. Allo stesso tempo, però, ci sono segnali che non vanno sottovalutati. Soprattutto le indiscrezioni. Per esempio quella di una pressione da parte dell’Arabia Saudita su Hamas perché si stacchi da Teheran. È una vecchia storia, che ha trovato conferma anche nei documenti diplomatici resi pubblici da Wikileaks, per esempio in un incontro ad altissimo livello tra re Abdullah e l’allora ministro degli esteri iraniano Mottaki nella primavera del 2009, dopo che Israele aveva attaccato Gaza con l’Operazione Piombo Fuso (lo riporto nella versione americana del mio libro, che uscirà in primavera). Anche allora, Riyadh stava cercando di spingere l’Iran a non occuparsi degli affari arabi. Hamas compresa. Ora, certo, potrebbe spingere ancor di più, approfittando delle difficoltà non solo logistiche che Hamas vive, con la repressione operata da Bashar el Assad in Siria.

Quello che si dice, ormai da molte settimane, è che Hamas dovrebbe replicare il modello organizzativo (e non solo) dei Fratelli Musulmani egiziani e del loro partito per poter ottenere lo sdoganamento da parte degli Stati Uniti. Rinunciando, ovviamente, alla violenza. Khaled Meshaal ha ambiguamente confermato una discussione interna sull’argomento “violenza”, parlando della necessità di spingere sulla “resistenza popolare” che si esplica ormai da anni nelle piccole realtà della Cisgiordania. Il dibattito interno, però, è tutt’altro dall’essere risolto. Soprattutto perché – a differenza della situazione interna precedente al 2007 e al coup di Gaza – la costituency di Hamas nella Striscia ha ora più peso di prima. E non ha alcuna intenzione di mettersi da parte, come dimostra il tour nella regione di Ismail Haniyeh appena conclusosi. Il primo, dicono a Gaza. Perché un altro viaggio è già in preparazione. Successe anche qualche anno fa, quando sia Meshaal sia Hanieyh furono protagonisti di diversi tour presso le capitali dell’area: non è detto, dunque, che al vertice di Hamas tutti lo pensino allo stesso modo, e che non ci siano ambizioni personali diverse e concorrenti…

Questi giorni, insomma, potrebbero essere importanti per comprendere cosa succederà del movimento islamista palestinese. Se, cioè, cederà alle richieste di Qatar e Giordania (due tra i diversi mediatori in campo), come sembra far comprendere il comportamento di Meshaal e del bureau politico. Oppure se è ancora tutto in forse, come potrebbe significare la discesa in campo (internazionale) di Haniyeh. Da molti anni, almeno dal 1995, Hamas discute sulla creazione di un partito emanazione del movimento. Ci provò con Al Khalas, proprio in quegli anni: esperimento fallito anche prima dello scoppio della seconda intifada. Ora potrebbe essere il momento giusto, dopo una prima, importantissima apertura nel 2005-2006, con la partecipazione alle elezioni municipali e parlamentari, e la contemporanea elaborazione del programma elettorale, vero e proprio documento politico. Vedremo, nei prossimi giorni, settimane e mesi, se le rivoluzioni arabe influiranno anche sulla struttura organizzativa di Hamas.

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