(da http://invisiblearabs.com/?p=2539)
All’apparenza, nulla dovrebbe unire l’attentato di Capodanno alla Chiesa dei Santi di Alessandria d’Egitto con la rivolta iniziata a dicembre a Sidi Bouzid e diffusasi ora sino alle strade di Tunisi. Un attentato sanguinoso con una rivolta di ragazzi per il pane e le rose? Non può essere. Il filo rosso che le unisce, però, c’è. E non è quello che succede nelle piazze, nelle strade di Sidi Bouzid o Alessandria d’Egitto, quanto piuttosto quello che succede nei palazzi presidenziali, nelle stanze nascoste dei regimi al potere a Tunisi o al Cairo.
Zine el Abidine Ben Ali, così come Hosni Mubarak, sono i nostri campioni di moderatismo. Sono i migliori alleati dell’Occidente. Prevengono l’ascesa dell’islam politico. Conservano la stabilità dei loro paesi, come se stabilità fosse sinonimo di ibernazione, di congelamento della democrazia. Poi, nei giorni del breve inverno nordafricano, si scopre che né Egitto né Tunisia sono paesi stabili. Che un attentato sanguinoso a una chiesa ortodossa di Alessandria nasconde non solo e non tanto tensioni settarie, quanto una mancata riforma del regime per trasformarlo in una vera, sostanziale democrazia. Alaa al Aswani, che ho intervistato per l’Espresso (sul numero ancora oggi in edicola), dice che “il regime non è innocente”, perché ha consentito all’islamismo radicale salafita di fecondarsi, in funzione anti-Fratelli Musulmani. Una cosa nota da tempo, non solo agli studiosi di politologia egiziana, ma a tutta quella fascia di uomini e donne a metà tra il giornalismo e l’analisi della politica internazionale che tentano di mostrare all’Occidente che il mondo arabo lasciato vivere (sopravvivere) in queste condizioni non è un fattore di stabilità per noi. Al contrario.
Stesso dicasi per la Tunisia. Sono anni che sento ripetere non solo ai politici italiani, ma all’uomo e alla donna della strada che “però, almeno la Tunisia ci protegge dai fondamentalisti, e il velo è vietato per legge, e Ben Ali è laico”. Laici sono anche moltissimi dei blogger, moltissimi dei ragazzi per le strade della rivoluzione del gelsomino che infiamma la Tunisia. E allora cos’è successo? Cos’è che non abbiamo capito? Francamente, e personalmente, noi – nel senso di quella terra di mezzo tra giornalismo e analisi – avevamo già capito, a mo’ di Cassandre. E’ solo che non ci avevate ascoltato(sulla Stampa di oggi, c’è un mio articolo sui blogger, da dove sono nati, perché sono cresciuti).
Scusate lo sfogo, ma mi fa male, nelle viscere, vedere la disperazione nei ragazzi che si danno fuoco. Mi fa male, nelle viscere, vedere il sangue su una chiesa di Alessandria d’Egitto. Si poteva evitare, a essere meno miopi, più coraggiosi, a essere meno ignoranti. A non seguire, soprattutto, le chiarine dello scontro di civiltà, di una Realpolitik senza fondamento che dovrebbe guidare i nostri passi diplomatici. La vera Realpolitik, quella di stampo brandtiano, prevedeva altro. Prevedeva coraggio e capacità di analisi. Nel rapporto col mondo arabo, sono mancate entrambe queste qualità.
L’Egitto dovrebbe traghettare alla democrazia da anni, forse decenni. Hosni Mubarak è al potere da quasi 30 anni. Le accuse di brogli nelle elezioni partono almeno dal 2000. Nel 2005 la gente è stata costretta a entrare nei seggi dalla finestra, con una scala di legno, per poter votare. I poliziotti lo impedivano, al secondo e al terzo turno, perché i Fratelli Musulmani, presentatisi come indipendenti, stavano vincendo troppo. E qualche mese fa ci sono state altre elezioni, e con un eufemismo si potrebbe dire che hanno avuto qualche problemino.
Tralascio di dire qual è la situazione di giornalisti, blogger, oppositori. Mi chiedo solo: è questa la stabilità che vogliamo, nel colosso del mondo arabo? E non si può far niente per aiutare il processo democratico, in un paese dove la presenza di capitali europei e americani, di aiuti umanitari, di progetti di sostegno è enorme?
Vogliamo continuare con gli esempi, e parlare di Algeria? Esattamente 19 anni fa, gennaio 1992, vi fu un golpe bianco ad Algeri. Perché aveva vinto l’islam politico. Abbiamo digerito – chissà, forse anche aiutato – la sostanziale cancellazione del voto democratico e consegnato l’Algeria a una guerra civile devastante, sanguinosa, conclusasi con la ‘normalizzazione’ di Bouteflika. Poi si scopre, qualche settimana fa, che tutta questa normalizzazione non è che abbia quietato gli animi. Bastava andare ad Algeri, come ho fatto poco più di un anno fa, invitata alla Fiera del Libro, per annusare altro. Sono tornata da Algeri, e tutti mi hanno sentito pronunciare una strana frase. “Quella è una città che sprizza violenza da tutti i pori. Una città crudele”. Strana frase, visto che sono stata accolta benissimo, che non ho avuto brutte avventure, che sono stata trattata con la cortesia tipica del mondo arabo. Eppure, la tensione si sentiva. Si sentiva che quello non è un paese pacificato: è un paese diviso, spaccato, dove c’è un di qua e un di là. Come 19 anni fa. Con una guerra civile e una normalizzazione di mezzo.
Ah, poi c’è la Palestina. La vittoria di Hamas nel 2006, sancita da poco meno di mille osservatori internazionali. La finestra di opportunità non l’abbiamo colta, e ora ci ritroviamo nel mezzo di un caos difficilmente risolvibile, con la macchia dell’Operazione Piombo Fuso che è schizzata anche sulla nostra camicia immacolata, di difensori strenui della democrazia. E come se non bastasse, mi sento dire da mesi che nei circoli diplomatici si ammette di aver sbagliato, tra 2005 e 2006, quando si è deciso di isolare Hamas dopo il successo elettorale. Bella prova!
Se volete continuo, ma lo sfogo è già durato troppo. Da veri apprendisti stregoni, stiamo allevando i mostri. E poi non dite che era colpa degli arabi. Loro ci hanno provato, a spingere per la democrazia, declinata alla laica o alla islamista. Non ci è piaciuto. Ma prima, per favore, cerchiamo di capire chi sono i protagonisti di questa vicenda. Cerchiamo di non mettere nella stessa barca i fratelli musulmani con i salafiti, islam politico con jihadismo. E’ una questione di vocabolario, dunque di sostanza.
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