ELEZIONI SOTTO ACCUSA: IL DILEMMA DELL’IMPOSSIBILE DEMOCRAZIA DELLA PALESTINA

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tratto da: http://www.infopal.it/elezioni-sotto-accusa-il-dilemma-dellimpossibile-democrazia-della-palestina/

10/3/2021

A Palestinian man looks for his name on the electoral roll at a school in Gaza City on March 3, 2021, ahead of the first Palestinian elections in 15 years [MOHAMMED ABED/AFP via Getty Images]

MEMO. Di Ramzy Baroud. Molti intellettuali e analisti politici palestinesi si trovano nella situazione poco invidiabile di dover dichiarare se appoggiano o rifiutano le prossime elezioni palestinesi, previste per il 22 maggio e il 30 luglio. Non ci sono risposte facili.

Il tanto atteso decreto di gennaio del presidente dell’autorità palestinese Mahmoud Abbas, per tenere elezioni legislative e presidenziali nei prossimi mesi, è stato accolto con grande favore; non come un vero e proprio trionfo della democrazia, ma come il primo risultato positivo tangibile del dialogo tra le fazioni palestinesi rivali, principalmente il partito Fatah di Abbas e Hamas.

Per quanto riguarda il dialogo interno palestinese, le elezioni, se non verranno ostacolate, costituirebbero un barlume di speranza per i Palestinesi che, finalmente, potrebbero godere di un certo grado di rappresentanza democratica nei territori occupati. Questo sarebbe un primo passo verso una rappresentanza più completa che potrebbe includere milioni di Palestinesi nella diaspora.

Tuttavia, anche queste semplici aspettative sono condizionate da molti “se”: se le fazioni palestinesi onoreranno i loro impegni presi con l’accordo di Istanbul del 24 settembre dello scorso anno; se Israele permetterà ai Palestinesi, compresi i gerosolimitani, di votare senza ostacoli e si asterrà dall’arrestare i candidati palestinesi; se la comunità internazionale guidata dagli USA accetterà il risultato delle elezioni democratiche senza punire i partiti e i candidati vincitori; se le elezioni legislative e presidenziali saranno seguite da elezioni più importanti e significative per il Consiglio Nazionale Palestinese (CNP), il parlamento palestinese in esilio; e così via.

Se una qualsiasi di queste condizioni non sarà soddisfatta, le elezioni di maggio probabilmente non avranno nessuno scopo pratico, a parte il fatto di fornire ad Abbas e ai suoi rivali una parvenza di legittimità, permettendo di acquisire ancora tempo e fondi dai loro benefattori finanziari.

Tutto questo ci obbliga a chiederci se la democrazia è possibile sotto una occupazione militare. Quasi subito dopo le ultime elezioni democratiche legislative del 2006 tenute in Palestina, i cui risultati hanno contrariato Israele, 62 ministri palestinesi e membri del nuovo parlamento sono stati sbattuti in prigione; molti di loro si trovano ancora in carcere.

La storia si ripete. Israele ha già iniziato ad arrestare i leader e i membri di Hamas in Cisgiordania. Dal 22 febbraio almeno venti attivisti palestinesi, compresi funzionari di Hamas, sono detenuti, il ché invia un chiaro messaggio ai Palestinesi da parte delle autorità occupanti, cioè che Israele non riconosce il loro dialogo, i loro accordi di unità o la loro democrazia.

Due giorni dopo il 67enne leader di Hamas, Omar Barghouti, è stato convocato da ufficiali dei servizi segreti militari israeliani nella Cisgiordania occupata che lo hanno messo in guardia di non candidarsi alle elezioni di maggio. “I funzionari israeliani mi hanno avvisato di non partecipare nelle prossime elezioni, minacciandomi di mettermi in carcere se lo faccio”, ha detto Barghouti, come riportato da Al-Monitor.

La costituzione palestinese consente ai prigionieri di candidarsi alle elezioni, legislative o presidenziali, semplicemente perché i leader palestinesi più popolari si trovano spesso dietro le sbarre. Marwan Barghouti è uno di loro. In carcere dal 2002, Barghouti rimane il leader più popolare di Fatah, anche se apprezzato più dai giovani quadri del movimento che dalla vecchia guardia di Abbas. Quest’ultima cricca ha beneficiato immensamente del clientelismo politico corrotto su cui l’85enne presidente ha costruito la sua autorità.

Per sostenere questo sistema corrotto, Abbas e il suo gruppo hanno lavorato per mettere da parte Barghouti, arrivando a suggerire che l’imprigionamento da parte di Israele del vibrante leader di Fatah serva gli interessi dell’attuale presidente palestinese. Questa affermazione ha molta sostanza, non solo perchè Abbas ha fatto poco per costringere Israele a rilasciare Barghouti, ma anche perché tutti i sondaggi d’opinione credibili suggeriscono che Barghouti è molto più popolare tra i sostenitori di Fatah – in realtà tra tutti i Palestinesi – del presidente, che è anche il capo di Fatah e, in effetti, dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).

L’11 febbraio Abbas ha inviato Hussein Al-Sheikh, il Ministro per gli Affari Civili e membro del Comitato Centrale di Fatah, per dissuadere Barghouti dal partecipare alle elezioni presidenziali. Uno scenario ideale per il presidente palestinese sarebbe quello di trarre vantaggio dalla popolarità di Barghouti facendolo guidare la lista di Fatah nelle elezioni per il Consiglio Legislativo Palestinese. Quindi Abbas potrebbe assicurarsi una forte affluenza di sostenitori di Fatah, pur mantenendo la presidenza per sé.

Barghouti ha respinto con veemenza la richiesta di Abbas, sfidando inaspettatamente il presidente, che ora rischia di dividere il voto di Fatah, di perdere ancora una volta le elezioni del PLC a favore di Hamas e di perdere le elezioni presidenziali a favore di Barghouti.

Tra le incursioni notturne e le repressioni dell’esercito israeliano e gli intrighi politici all’interno del movimento diviso di Fatah, ci si chiede se le elezioni, se avranno luogo, permetteranno finalmente ai Palestinesi di costituire un fronte unito nella lotta contro l’occupazione israeliana e per la libertà palestinese. C’è anche il problema dell’eventuale posizione che la “comunità internazionale” prenderà quando i risultati delle elezioni saranno rese note. I notiziari parlano degli sforzi compiuti da Hamas per cercare garanzie dal Qatar e dall’Egitto “per garantire che Israele non perseguirà i suoi rappresentanti e candidati nelle prossime elezioni”, ha riferito Al-Monitor.

Ma che tipo di garanzie possono ottenere i paesi arabi da Tel Aviv? E che tipo di influenza possono avere Doha e Il Cairo quando Israele continua a ignorare l’ONU e a mostrare disprezzo per il diritto internazionale e la Corte penale internazionale?

Nonostante tutte queste incertezze, può la democrazia palestinese permettersi di sopravvivere nella sua attuale inerzia? Il mandato di Abbas come presidente è scaduto nel 2009, il mandato del PLC è terminato nel 2010 e, in effetti, l’Autorità Palestinese era stata creata come un organismo politico ad interim la cui funzione doveva aver fine nel 1999. Da allora, la “leadership palestinese” non ha goduto di legittimità tra i Palestinesi, derivando la sua importanza, invece, dal sostegno dei benefattori internazionali, che raramente sono interessati a sostenere la democrazia in Palestina.

L’unico aspetto positivo della storia è che Fatah e Hamas si sono anche accordati sulla ristrutturazione dell’OLP, che è attualmente monopolizzata dal movimento Fatah di Abbas. Se la ristrutturazione democratica dell’OLP avrà luogo o meno dipende in gran parte dal risultato delle elezioni di maggio e luglio.

La Palestina, come altri paesi del Medio Oriente, compreso Israele, ha una crisi di legittimità politica. Essendo un territorio occupato il cui popolo ha poca o nessuna libertà, tuttavia, è giustificato sostenere che una vera democrazia in queste orribili condizioni non può essere raggiunta. Tenere elezioni sotto occupazione, e spesso sotto il fuoco, è il dilemma dell’impossibile democrazia della Palestina.

Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi

 

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Elezioni sotto accusa: il dilemma dell’impossibile democrazia della Palestina

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