ENTRY DENIED e l’identificazione degli attivisti solidali con il Popolo Palestinese

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Mentre dalla Palestina occupata giungono rumors sulla identificazione degli attivisti aggregatisi all’iniziativa Welcome to Palestine,
identificazione da parte dell’Autorità Palestinese ( … ),
ricevo e pubblico un messaggio da parte di chi invece ha sperimentato l’ennesimo ENTRY DENIED.
Amman, 15 Luglio 2011
“Entry Denied:  Israele, l’unica democrazia del Medio Oriente ”
Care lettrici e cari lettori.
Non basta che che il governo di  Netanyahu abbia bloccato la la partenza di centinaia di attivisti non violenti che cercavano di raggiungere la Palestina senza mentire sul vero proposito della loro visita in “Israele”. Non basta che coloro che sono riusciti ad arrivare, richiedendo di visitare i territori occupati, siano stati deportati e rinchiusi in carcere, in attesa di essere espulsi. Il governo israeliano non è stato solamente molto attento e efficace nell’impedire l’entrata di centinaia di persone di tutte le età che avevano aderito all’appello della campagna“Benvenuti in Palestina”, organizzata da varie associazioni pacifiste palestinesi e israeliane, ma l’accesso è stato negato a ogni sospetto attivista che abbia tentato di entrare in Israele attraverso gli stati confinanti.
Sono da molti anni un’attivista per i diritti umani del popolo palestinese. Ma sono stato in Israele/Palestina per la prima e ultima volta nell’estate del 2003, partecipando alla campagna contro il muro dell’apartheid con il movimento a cui ancora tutt’oggi faccio riferimento: l’International Solidarity Movement (www.palsolidarity.org), lo stesso di cui faceva parte l’amico Vittorio Arrigoni. Dopo otto anni ho tentato di tornare in Palestina passando dalla Giordania e il governo israeliano mi ha impedito l’accesso, stampandomi sul passaporto un ENTRY DENIED con due grosse line rosse, di cui comunque vado fiero. L’11 Luglio sono atterrato a Amman e il 12 mi sono recato al posto di confine di Kin Hussein Bridge. Dopo essere stato separato dal mio zaino, dopo vari controlli e interviste che si sono susseguite e intensificate,  dopo ore di attesa una giovane militare mi restituisce  il  passaporto dicendomi: “Lo sai che te ne torni in Giordania vero?”  Ho fatto presente che nelle quattro ore di attesa non ero stato informato. Alla  richiesta di spiegazioni mi risponde: per “ragioni di sicurezza”. Quale sicurezza? Rappresento un pericolo per la sicurezza di Israele? In che modo?  Recuperato il mio zaino chiedo di di essere accompagnato da un responsabile che sia in grado di fornirmi maggiori delucidazioni sui motivi di questa decisione. Un’altro militare, superiore in grado, azzarda una spiegazione, chiedendomi se io non mi ricordi che cosa ho fatto nel Dicembre 2004. Io rispondo che mi ricordo benissimo, infatti ero in Inghilterra per un corso di studi. Ma non importa, sarà stato prima o dopo, afferma con molta precisione la soldatessa.
Il militare fa riferimento a quanto accadde  nell’estate del 2003 quando fui arrestato con altri attivisti internazionali in un villaggio della West Bank cercando di proteggere una famiglia palestinese dalla distruzione parziale della propria casa, che si trova oggi, come centinaia di altre, schiacciata tra una colonia (quindi barriere e cancelli) e il famoso muro con cui Israele si protegge dai “terroristi”? Avendo praticato sempre e solo tecniche di resistenza nonviolenta, in che modo dunque posso io essere considerato un pericolo per lo stato di Israele? Nessuna risposta. La soldatessa non può dire che chiunque metta piede, per qualsiasi ragione in Palestina, è di fatto un nemico, in quanto in grado di osservare, capire e soprattuto raccontare al mondo intero gli effetti devastanti dell’occupazione israeliana.
Questa esperienza mi ha fornito anche l’opportunità di vivere ciò che palestinesi, provenienti dal mondo intero, vivono ogni volta che vogliono tornare nel loro paese di origine. Emigrati che da anni vivono all’estero e che vogliono  salutare la famiglia,  festeggiare un compleanno, come un  americano che torna in Palestina ogni estate e che ogni volta aspetta ore per poter entrare. Famiglie con bambini anche piccoli che,  per visitare per due soli giorni i parenti in Cisgiordania,  subiscono ore di controlli e interviste.
Ho visto lo stupore incredulo nello sguardo di  due giovani, in attesa di passare la frontiera, quando mi hanno visto tornare  accompagnato dagli addetti della sicurezza. Ebbene si, mi rimandano indietro, mi trattano come una bestia, come trattano tutti i Palestinesi alla frontiera o a qualsiasi check point nei territori occupati. Passando sono riuscito a dir loro “We are all palestinians”. Non hanno potuto alzare le classiche due dita in segno di vittoria, né  intonare un coro, ma la tristezza nei loro occhi ed  il sorriso dopo aver sentito la mia frase  mi hanno fatto sentire meglio.
La presenza di internazionali in Palestina ha infatti anche solamente l’effetto di non farli sentire soli.
L’ampiezza della repressione contro le centinaia di attivisti che hanno cercato di raggiungere la Palestina tra il 7 e il 9 lulio 2011 (che ha suscitato perfino e incredibilmente la critica dei media israeliani più noti) e contro quelli che cercano di farlo in qualsiasi momento e da qualsiasi confine, non è sufficiente a scoraggiare  coloro che continuano a battersi in modo non violento per i diritti di un popolo accogliente e dignitoso come quello palestinese. Questo dovrebbe stimolare a visitare il paese e a conoscere i palestinesi. Risulta infatti molto più facile entrare in Israle passando da Tel Aviv per chi lo fa per la prima volta, semplicemente raccontando che ci si reca in terra santa per visitare i luoghi sacri o andare nelle spiaggie a fare il bagno..
Io comunque sono andato in Palestina e spero che lo facciate  in tanti.
Verra’ il momento in cui si potra’ visitare liberamente la Palestina come nazione libera e indipendente.  Dobbiamo lottare anche perchè questo avvenga.
In solidarity,
Simone Brocchi
PS: Una curiosità: su due dei tre “stamps” che le autorità israeliane hanno impresso sul mio passaporto, ben due recitano ENTERY DENIED, in un inglese palesemente incorretto!

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