In due anni la crescita è calata del 7%, per la riduzione dei finanziamenti esterni e le “persistenti” restrizioni israeliane. Tutti effetti del Protocollo di Parigi.

di Emma Mancini
Betlemme, 13 settembre 2013, Nena News – Un calo di sette punti percentuali in due anni: il PIL dei Territori Occupati – segnala il Fondo Monetario Internazionale in un rapporto pubblicato ieri – ha subito un vero e proprio crollo, che rende sempre più probabili dei disordini sociali.
Nel 2013, la crescita interna non supererà il +5%, contro il 12,2 % del 2011 e il 5,9 del 2012: un risultato negativo che l’FMI imputa al calo drastico dei finanziamenti esteri – principale fonte di entrata economica per il governo di Ramallah (il 75% del totale), ma mai così bassi dal 2000 -, alle “persistenti” restrizioni israeliane e ad una situazione politica incerta. Ad una minore crescita si accompagna, di conseguenza, un calo significativo del tasso di occupazione: a preoccupare è soprattutto il tasso di disoccupazione giovanile, salito al 28%.
A soffocare l’Autorità Palestinese è un buco nel budget da mezzo miliardo di dollari, che secondo l’FMI in po
chi anni potrebbe rendere “insostenibile” la gestione della finanza pubblica, anche a causa della mancanza di riforme economiche chiare. Insomma, secondo l’istituto, l’ANP non ha tagliato abbastanza le spese interne (salari dei dipendenti pubblici, pensioni, servizi sanitari), non ha investito quanto doveva e resta strettamente dipendente dai finanziatori esteri.
Tutti fattori profondamente interconnessi alle politiche di occupazione che annichilendo il settore privato (industriale ed agricolo) hanno costretto l’ANP ad utilizzare il settore pubblico come vero e proprio ammortizzatore sociale, assorbendo grandi fette di disoccupazione (153mila gli impiegati pubblici solo in Cisgiordania). La questione si apre ad una più approfondita analisi economica del conflitto. Dal 1967 ad oggi Israele ha depresso l’economia palestinese, rendendola completamente dipendente dalla propria: “Dall’inizio dell’occupazione militare israeliana, Tel Aviv ha implementato una serie di politiche volte a controllare l’economia interna dei Territori Occupati – ci spiega Basel Natsheh, professore di economia alla Hebron University – Quella palestinese è un’economia tradizionalmente rurale, per cui Israele ha agito da una parte attraverso la confisca delle terre agricole e creando ostacoli legali alle imprese private, e dall’altra aprendo il mercato del lavoro israeliano ai lavoratori palestinesi. Migliaia di palestinesi hanno dovuto abbandonare le terre per lavorare in Israele e nelle colonie”.
Le conseguenze sono concretamente visibili nei supermercati palestinesi, invasi dai prodotti israeliani, venduti a prezzi molto più bassi: “L’80% di frutta e verdura proviene da Israele o dalle colonie. Ciò ha provocato, a livello sociale e culturale, una convergenza negli stili di vita israeliano e palestinese, e un’ulteriore spinta all’abbandono della terra e della vita rurale”.
La situazione cambia con lo scoppio della Prima Intifada, nel 1987: sorgono i primi checkpoint ed entrare in Israele come lavoratori diventa sempre più complesso: “Se all’inizio della Prima Intifada erano circa 130mila i lavoratori palestinesi impiegati nel mercato del lavoro israeliano – prosegue Natsheh – nel 1995, anno del Protocollo di Parigi, sono solo 30mila. Per questo la neonata Autorità Palestinese cerca di coprire il gap, facendo impennare il numero di dipendenti pubblici: 80mila nel 1996, un numero doppio rispetto alle reali necessità dell’amministrazione, e 153mila nel 2013. Un tratto caratteristico della politica economica interna: l’ANP pare ignorare la necessità di creare un’economia di produzione e preferisce farsi sostenere dagli aiuti internazionali, uccidendo definitivamente il mercato interno palestinese“.
Al resto ha pensato Tel Aviv. Il Protocollo di Parigi, siglato dall’OLP e dallo Stato di Israele, è stato da subito un boomerang per Ramallah: un ulteriore strumento nelle mani delle autorità israeliane per tenere a bada l’ANP e continuare a perpetrare l’occupazione economica dei Territori.
“Innanzitutto, si stabilisce che la moneta ufficiale in Cisgiordania e a Gaza resterà lo shekel, la valuta israeliana – continua il professor Natsheh – Così non solo Israele gode dei benefici derivanti dai consumi palestinesi, ma i Territori vengono afflitti dal tasso di inflazione israeliano, pur non vivendo nelle stesse condizioni economiche. Ad Israele, poi, viene assegnata la gestione totale dei confini e quindi il controllo delle importazioni e delle esportazioni palestinesi e la riscossione delle tasse doganali”.
Attraverso il controllo del movimento delle merci, Israele impone anche le attività produttive: le imprese palestinesi possono esportare in Israele i propri prodotti solo se rispettano gli standard di qualità israeliani, standard molto più rigidi di quelli europei, che nella pratica chiudono le porte alla produzione palestinese. “Ed infine, le tasse. Con il Protocollo di Parigi, Israele raccoglie le tasse dirette ed indirette palestinesi (dalle bollette all’IVA fino ai contributi dei lavoratori) e li gira in un secondo momento al governo di Ramallah. Uno strumento di potere che, come abbiamo visto più volte, trasforma la dipendenza economica in pressione politica”.
Il tutto all’interno del più ampio contesto dell’occupazione militare: Israele sfrutta le risorse naturali palestinesi, l’acqua, le cave di pietra, gli appezzamenti agricoli, togliendo dalle mani delle famiglie palestinesi le tradizionali fonti di sostentamento. L’acqua viene rivenduta loro a prezzi esorbitanti dalla compagnia israeliana Mekorot, mentre le terre confiscate per la costruzione del Muro e delle colonie diventano insediamenti agricoli gestiti esclusivamente da coloni israeliani. Nena News
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