Foto con dedica

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Non riesce ad arrivare alla fine della telefonata senza scoppiare a piangere, il nostro dolce e forte dottor Salim, che prova a descriverci l’angoscia delle famiglie di Shufat che si consumano nell’attesa del rilascio di ben 150 ragazzini, arrestati in questi giorni tra i vicoli stretti e maleodoranti del campo.

Proprio mentre vengono appese centinaia di nostre fotografie di solidarietà sui rami degli alberi di limoni rimasti ancora con le radici nella terra di asser, a Beit Jala, pochi chilometri più in là, a Shufat, si scatena la furia violenta dei soldati che “ogni giorno, dalla mattina alla sera, per un’intera settimana -racconta a BoccheScucite Salim- hanno invaso il campo seminando il terrore.

Quanti di voi che leggete siete stati ospitati in casa di Salim e quante storie di soprusi quotidiani avete ascoltato dal suo parlare pacato, sottolineato dal sincero sorriso che si allunga sui baffi del volto. “Che bello sentirvi, Come state voi in Italia?” “Bene Salim, ma raccontaci di voi, della tua famiglia”.

“I soldati arrivavano tutte le mattine molto presto e chiudevano completamente l’unico checkpoint che permette a circa 7.000 persone di andare ogni giorno a lavorare a Gerusalemme. Dopo poche ore, montava la rabbia e ci sentivamo tutti soffocati nella gabbia del nostro campo, abitato da 32.000 persone. Iniziavano poi le provocazioni ai ragazzini, con le jeep e le sassaiole da parte di nostri giovani. Purtroppo hanno usato di tutto contro la gente… molti tipi di gas e di armi le ho raccolte anch’io e non le avevo mai viste. Pallottole cosiddette “di gomma” e “bombe sonore”, proprio come quella che mi ha colpito. Mi hanno preso ad una gamba e per fortuna ho potuto fermare l’infezione ricoverandomi in ospedale. Ma il mio dolore non è nulla rispetto a quello dei genitori dei 150 ragazzini che sono stati arrestati e che a tutt’oggi devono ancora essere rilasciati. Dicono che l’esercito, dopo aver sconvolto le vite di questi ragazzi e compromesso il loro futuro, pretenderà una “penale” di 5.000 shekel per ogni ragazzo liberato!”

Dedichiamo questo Editoriale di Bocchescucite a tutte quelle mamme che piangono e aspettano… e al futuro di quei ragazzini che vedono davanti a loro solo la ferocia di chi li opprime, da sempre, da quando sono venuti al mondo… Ma forse anche noi che scriviamo, abituati a tale ferocia, stiamo smarrendo la misura di questo ripetuto crimine.

E leggiamo distrattamente l’ultimo articolo di Gideon Levy da Gerusalemme (Haaretz, 25 marzo): “Quel timido ragazzo che entra ha un sorriso dolce sul volto. E’ appena tornato a casa da scuola, portando la cartella sulle spalle e subito si getta tra le braccia di sua madre. Questa mattina è andato a scuola in lacrime, come succede sempre più spesso. Nel pomeriggio resta in casa, non ha voglia di vedere gli amici. Qualche giorno fa, di notte, ha iniziato a gridare: “Al-Yahud, Al-Yahud”.

Rivede ancora quella scena: un cane che abbaia, legato alla sua mano, per lunghe interminabili ore, dopo che i soldati lo avevano arrestato per la strada. I soldati lo hanno fatto sedere su una panchina di metallo vicino al loro posto di guardia e lo hanno lasciato lì per sette ore – ammanettato, bendato, senza nulla da mangiare o da bere, senza gabinetto, fino a tarda sera. Quando è rientrato a casa era distrutto e ricordando quei pantaloni bagnati di urina, nei dieci giorni seguenti non prendeva sonno la notte, anche se era a letto con sua madre.

I soldati hanno sempre meno pietà i ragazzini palestinesi. Amir, di appena 11 anni, è stato arrestato e ammanettato per ore con l’accusa di lanciare pietre ai soldati, mentre suo fratello Hassan, 13 anni e mezzo, che fa la terza media, è stato portato nel carcere di Ofer, dove è stato detenuto per otto giorni, trascorrendo le sue giornate di carcere in una cella con detenuti adulti -proibito da ogni legge. Prima di essere chiuso in cella gli hanno chiesto: “Sei di Fatah o di Hamas?” Hassan ha detto di Hamas. Così il ragazzino è andato a finire con detenuti di Hamas. Naturalmente -ma questo è normale- nessuno ha pensato di informare i suoi genitori.”

Dedichiamo queste righe ad Anas, ragazzo palestinese di Abu Dis, che ogni giorno tenacemente cerca di recarsi a Betlemme a studiare italiano. Il 16 marzo Anas è arrivato in ritardo a scuola. Perchè? Lo ha spiegato la sua prof, Caterina Donattini, in una lettera accorata a Il Manifesto (17 marzo).

Anche Anas, come centinaia di ragazzi palestinesi in questi giorni, è stato arbitrariamente ed impunemente arrestato e picchiato dai soldati dell’esercito israeliano, mentre faceva la fila al checkpoint: Lo hanno portato in una piccola stanza, di cui ogni check point è fornito, e in quattro hanno iniziato a picchiarlo selvaggiamente. Lo hanno schiaffeggiato, gli hanno sbattuto i fucili addosso, infine lo hanno lasciato partire.

Anas accasciato su quella sedia. Le sue lacrime, il suo onore, il suo valore, la sua intelligenza feriti. Che vergogna, che rabbia infinita che sento, una rabbia che non vuole sentire ragioni e che forse non avrei sentito se ne avessi semplicemente letto su un giornale. L’ingiustizia infatti ha occhi, mente e lacrime vere. Volevo portarlo all’ospedale, Anas non ha voluto: «Anche questa lezione devo lasciarmi rubare?».

(…) Vorrei che gli studenti si immedesimassero in Anas. Vorrei che gli insegnanti, i professori italiani, immaginassero di ricevere il migliore dei propri studenti, una mattina, in classe, percosso e ferito nell’anima. Questa la Palestina di oggi, un regime di apartheid contro cui noi occidentali siamo chiamati a reagire”.

Dedichiamo queste poche, stanche parole a Muhammad e Saleh, di 17 e 21 anni, certi che non le leggeranno mai, perché qualche mattina fa sono stati fatti a pezzi da un missile israeliano mentre raccoglievano la legna, a Gaza.

Affidiamo queste storie di ingiustizia senza fine alle mani forti e impazienti di N., 15 anni, sicuri che, mentre appenderà i volti di quanti dall’Italia stanno inviando la loro foto al giardino dei limoni sradicati, dedicherà questo gesto di nonviolenza creativa a tutti quei suoi coetanei che hanno pagato e continuano a pagare la loro voglia di crescere e di vivere liberi con il sangue e l’oppressione.

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