admin | October 31st, 2011 – 10:19 am
Involontariamente, senza saperlo, per via virtuale, sono stati loro a introdurmi, un bel po’ di anni fa, all’Egitto che non conoscevo. Alaa Abdel Fattah e sua moglie Manal Hassan. O meglio, @alaa e @manal, come li conosciamo oggi noi frequentatori di twitter. Avevano creato un aggregatore di blog legato al loro sito, manalaa.net. Aggiornava in automatico quello che veniva prodotto dai blogger egiziani (o internazionali che vivevano in Egitto). Sempre e in qualsiasi lingua. Una manna, per chi stava buttando un occhio alla blogosfera araba: una finestra aperta, dalla quale osservare una generazione che si stava attrezzando per essere dissidenza. Il risultato, lo avete visto tutti, è stato meraviglioso. La rivoluzione del 25 gennaio.
E’ questo uno dei motivi per cui sono grata ad Alaa Abdel Fattah, anche se lui non lo sa. Per avermi fatto capire che c’era altro, in quella Cairo in cui ero vissuta senza riuscire a vedere cosa stessero facendo i ragazzi, nel grigiore di una megalopoli che sembra in irresistibile decadenza. C’erano loro, i ragazzi, e stavano crescendo in un modo così diverso da prima, da poter cambiare le cose. C’erano loro, ed erano così invisibili che a loro è dedicato uno dei capitoli del libro che ho scritto per Feltrinelli e da cui è tratto questo blog.
Alaa Abdel Fattah, in Italia, non è il più noto tra i blogger egiziani che hanno fatto la rivoluzione. Io, invece, lo considero il migliore. E non sono la sola. @alaa è coraggioso, è lucidissimo, è intelligente. Il suo miglior ritratto, assieme ai dati di cronaca riportati oggi da Al Ahram Online, è contenuto in questo bellissimo documentario (The NO choice) che mette assieme – e non poteva fare altrimenti – @alaa alla sua famiglia.
Una famiglia per alcuni versi ingombrante. Un padre – Ahmed Seif al Islam – che è tra i più noti avvocati specializzati nei diritti civili di tutto l’Egitto, già a capo dello Hisha Mubarak Law Center. Ad Ahmed Seif è toccato, ieri, difendere suo figlio in un tribunale militare, forse sapendo che anche suo figlio avrebbe condiviso quello che Abu Alaa aveva vissuto in passato. La prigione. Ahmed Seif ci ha passato cinque anni. Da comunista. È scappato solo una volta, prima della sentenza definitiva, perché voleva avere un altro figlio, una bambina, oltre Alaa. Da quella fuga è nata Mona Seif, attivista, una delle fondatrici dell’associazione contro i processi ai civili nei tribunali militari. Ahmed Seif è stato torturato, in galera, mentre fuori lo attendevano i suoi figli e sua moglie Leyla Soueif, matematica, docente alla Cairo University. Un’altra storia di dissidenza contro il regime di Hosni Mubarak, condivisa anche dalla sorella di Leyla, Ahdaf Soueif, una delle più note scrittrici egiziane della diaspora, volata al Cairo, il 25 gennaio, per partecipare alla rivoluzione assieme a suo figlio Omar Robert Hamilton, regista.
Una famiglia omogenea, da questo punto di vista. Intellettuali, oppositori, difensori dei diritti individuali e collettivi. Persone che rischiano in prima persona. Ahmed Seif, col carcere, Leyla Soueif, sempre in prima linea, nell’università e fuori, per i diritti civili. E dunque anche @alaa e @monasosh, sua sorella. L’attività politica di Alaa Abdel Fattah, quindi, sembra come la corrente di un fiume. Non può andare se non in una sola direzione. @alaa, informatico di professione, comincia a coniugare il suo lavoro con la politica. Non solo al computer, ma aprendo quella pagina di protesta politica che parte dal 2005 e non si ferma più. Una pagina, nascosta a un Occidente molto distratto, che ha prodotto citizens’ journalism e denunciato il regime di Mubarak che tanto piaceva ai suoi alleati europei. Torture, pestaggi, impossibilità di manifestare il proprio pensiero: è tutto nei video e nelle foto scattate da @alaa e dagli altri, da Wael Abbas, da Hossam el Amalawy (è sua la foto che ho scelto di @alaa), da Wael Khalil, dalle decine di ragazzi che – invisibili – hanno testimoniato e filmato tutto. Per strada. Dal 2005 al 2011. Perché solo di quegli strumenti erano armati: videocamere, telefonini, computer. Twitter lo hanno usato prima loro dei ragazzi iraniani, e nessuno se n’è accorto, da noi.
È, insomma, una dissidenza reale e virtuale assieme che ha prodotto, alla fine, la rivoluzione. Fondata sulla difesa della libertà individuale e dei diritti di ciascuno, un collante – questo – che ha fatto la differenza con le generazioni precedenti, come spiega Ahmed Seif nel documentario. Perché ha fatto superare le barriere ideologiche degli oppositori più vecchi. Laici e islamisti, liberali e postmarxisti, tutti insieme, per i diritti individuali di ognuno, a prescindere dalla carta d’identità politica.
È questa difesa della libertà individuale, dei diritti di ciascuno e dello Stato di diritto che ha portato @alaa a rifiutarsi di essere giudicato – lui, civile – da un tribunale militare, ieri. Rischiando la galera. Da parte di chi gestisce il potere oggi al Cairo, invece, c’è una ragione politica, dietro all’arresto di Alaa Abdel Fattah. Lo pensano tutti gli attivisti di Tahrir: @alaa ha fatto ciò che ha potuto perché vi fossero le prove necessarie per capire chi fossero gli autori della strage dei copti a Maspero. Un gesto, non solo politico, che non è stato gradito, perché porta in primo piano, alla luce, lo scontro in atto al Cairo tra rivoluzione e controrivoluzione.
Il twitter egiziano (e non solo) ieri ha gridato tutta la sua rabbia, per l’arresto di @alaa. Con lui si arresta la rivoluzione del 25 gennaio, hanno scritto in molti. Adesso tocca a lui, poi toccherà a tutti quanti noi. @alaa in prigione, come nel 2006, è un punto di non ritorno.
Il figlio di @alaa e @manaal, che dovrebbe nascere a breve, si chiamerà Khaled. Come Khaled Said.
Il brano per la playlist: la settimana inizia con Paolo Fresu, Dhafer Youssef e Eivind Aarset. Nenia.
http://invisiblearabs.com/?p=3805
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