admin | September 16th, 2011 – 11:14 am
E’ una luce abbacinante quella che filtra dai finestroni. La luce di Gerusalemme che passa immutata dentro il grande edificio del College de La Salle da tanti anni, da quando – nel 1878 – i Frères inaugurarono la loro scuola dentro la Città Vecchia costruita sul terreno del Patriarcato Latino. In quasi un secolo e mezzo di vita, i Frères sono stati al servizio della crescita educativa di Gerusalemme. Fin quando è stato possibile, di tutti gli studenti, abbienti o meno, paganti o meno. Sino al 1948, un buon numero di ragazzi ebrei facevano parte della popolazione scolastica assieme alle altre comunità religiose della città, come indicato con precisione nei diari del piccolo archivio dei Frères.
Se la luce è immutata e immutabile, se Gerusalemme è – per alcuni versi – sempre uguale a se stessa, la Storia ha scorazzato per le pietre lucide della Città Vecchia, impetuosa a volte, silenziosa in altre occasioni. E’ comunque un dato di fatto, la Storia, che ognuno racconta a proprio modo. Con i propri occhi. A scuola e altrove.
Perché cito i Frères, a parte il dato oggettivo di averli vicino casa, al di là della Porta Nuova, accanto al Terrasanta, a un’altra delle più importanti scuole private (religiose) di Gerusalemme araba? Perché all’ombra del gran parlare del dossier sul riconoscimento dell’Onu dello Stato di Palestina, si sta combattendo una battaglia per ora silenziosa sui programmi scolastici in adozione nelle scuole palestinesi di Gerusalemme est. Una battaglia silenziosa, ma non meno foriera di conseguenze del riconoscimento dello Stato di Palestina…
Qualche dato: nella Gerusalemme est occupata nel 1967 da Israele, e considerata tale dalle Nazioni Unite, vivono oltre duecentomila persone, compresi (tanti) bambini in età scolare. Hanno seguito – sin dal 1967 – programmi scolastici che non erano gli stessi seguiti nella parte ovest della città. Proprio perché erano sotto occupazione. Prima i programmi scolastici giordani, e poi – dopo gli accordi cosiddetti Oslo II – i programmi dell’appena sorta Autorità Nazionale Palestinese. Nessun programma scolastico israeliano, in virtù di una condizione speciale e di un’occupazione che, ora, ha superato il giro di boa dei 44 anni. Nel frattempo, l’ANP ha creato i propri programmi scolastici, per superare quelli giordani e quelli egiziani, usati tra 1948 e 1967: programmi propri, a cui hanno partecipato tutte le anime culturali e religiose, e che sono stati adottati anche nelle scuole dell’UNRWA.
Negli scorsi mesi, però, qualcosa è cambiato. E anche di questo non avete avuto notizia nei giornali italiani mainstream. Non fa notizia, infatti, che la commissione sull’educazione della Knesset abbia deciso nella primavera scorsa che anche a Gerusalemme est, nelle scuole comunali così come – almeno sino ad ora – nelle scuole private palestinesi, si debbano usare programmi scolastici israeliani. In una lettera inviata al premier Benjamin Netanyahu il 6 giugno scorso, l’associazione israeliana Ir Amin (che della convivenza a Gerusalemme si occupa) descriveva la severa posizione della commissione parlamentare:
On April 12, 2011 the Knesset education committee held a meeting whose title was “Use of unauthorized curricula in the education system in general and in the Arab sector in particular (including East Jerusalem).” The real purpose of the meeting was revealed during the discussion, namely the forceful attempt by the committee and its chairman MK Alex Miller to apply the Israeli curriculum to East Jerusalem. As MK Miller said at the meeting in reference to the students of East Jerusalem: “The whole curriculum should and must be Israeli”.
La conclusione di Ir Amin, sulle conseguenze di una strategia educative simile, non erano meno severe:
Attempts to apply the Israeli curriculum, whether all at once or gradually, by exerting pressure on the schools or other professional parties, as was done by the committee and which we know is also happening on the ground, are raising a lot of anxiety among the public in East Jerusalem. It understands these efforts as another unilateral and aggressive act meant to add to the tension of life in the city and further erode their basic rights.
Meanwhile, employment of the Palestinian Authority’s curriculum in East Jerusalem is supported not only by the political agreement that was signed but also by international law and the right to education, both as a customary obligation and as recognized in many international conventions Israel signed and ratified. The right of the children of East Jerusalem to an education by their culture and national identity is also consistent with the basic right to education recognized in Israeli law and their right to equality in education, freedom and defense of their identity. Israel is obligated not only to avoid violating those rights but also has the positive obligation to support their realization
I tentativi di cui parla Ir Amin sono già diventati realtà. Decine di migliaia di libri, spediti dal comune di Gerusalemme e dal suo sindaco israeliano Nir Barkat sono arrivati nelle scuole private della zona orientale della città, in cui studiano ventimila studenti. Si tratta di libri – in arabo – in cui sono state cancellate letture della storia di Israele e Palestina che Israele considera un attacco allo Stato. Libri che sono stati spediti alle scuole, senza alcuna riflessione comune sui curricula, sui contenuti, su una lettura della storia contemporanea non imposta dall’alto.
La reazione dei ragazzi è stata immediata: no ai testi israeliani, no all’idea di avere una bandiera israeliana sulla scuola. No alla storia scritta da chi governa la città, tutta la città, anche chi è sotto occupazione. Ci sono stati sit-in, discussioni, scioperi dentro le scuole, si programmano altre manifestazioni, forse una per domani. Una reazione che, da residente da otto anni a Gerusalemme, mi aspettavo. L’idea del cambio dei programmi scolastici, della sostituzione dei libri, della bandiera israeliana dentro Gerusalemme est, non può essere se non benzina sul fuoco negli animi di adolescenti la cui vita, in città, è già di molto peggiorata negli ultimi anni nonostante i comunicati stampa del comune di Gerusalemme, che anche nelle scorse settimane hanno elencato il numero cospicuo di aule costruite o ristrutturate nella zona orientale della città. Aule nelle quali si dovrebbero insegnare programmi scolastici sui quali non vi è stato alcun dibattito pubblico con chi dovrebbe poi metterli in pratica.
Benzina sul fuoco proprio a settembre, e proprio alla vigilia della discussione all’Onu sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Altri commenti sono superflui.
La playlist prevede un brano che parli di ragazzi e ai ragazzi: rap arabo, anzi, arabo-israeliano, quello dei Dam Palestine.
Da “Arabi Invisibili” (Feltrinelli 2007)
Le ragazze di ustaz Jibril chiedono continuamente di rispondere alle sollecitazioni dell’insegnante. Il maestro Salama ne sceglie una alla volta, interloquisce con lei, a ritmo serrato. Poi va oltre, passa all’esempio successivo, sempre seguendo lo stesso schema. Le sue studentesse sono preparate. E fin troppo serie, nel loro semplice camice a righe bianche e verdi che arriva sino al ginocchio e fa da uniforme scolastica. Camice sostituito, da alcune di loro, da un rigoroso soprabito blu che arriva sino ai piedi, accompagnato da un velo bianco – un candido hijab, che le più vezzose hanno scelto ricamato – attorno al viso pulito di una quindicenne. Sui banchi della loro aula assolata, attorniata dal verde della campagna e dai profumi d’aprile, c’è il volume numero 10 di lingua araba. Volume numero 10. Decima classe del nuovo corso scolastico palestinese. Il primo fatto in proprio, pensato, elaborato realizzato in appena cinque anni dall’Autorità Nazionale, dal 1995 al 2000. Anno in cui è cominciata la seconda intifada e – contemporaneamente – i nuovi curriculum, i nuovi programmi sono entrati nelle aule di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est. Strana, la storia. L’unico stato non esistente, non formalizzato, un paese dai confini labili e sotto occupazione, uno “stato non stato” è anche l’unico, nel mondo arabo, ad aver inventato dal nulla, di sana pianta, i propri programmi scolastici. Come se dovessero essere uno dei perni di un futuro stato palestinese. L’impianto, dice Omar Abu Humos, il vice del Centro per i Programmi scolastici dell’Anp a Ramallah, poggia certo sulla tradizione contemporanea, che in Palestina è stata solo anglosassone. Per mitigarla, però, gli esperti del Centro hanno chiesto aiuto un po’ qua e un po’ là. Per esempio al Marocco, in virtù dell’influenza francese che ha segnato le scuole maghrebine. Un pizzico di Francia, insomma, poteva essere utile a smussare gli angoli della tradizione britannica. Per il resto, i palestinesi hanno fatto tutto da soli, dice Abu Humos. Gli europei, che dal 1992 sono stati i più importanti finanziatori dell’Anp, hanno staccato solo gli assegni per la logistica: affitto dei locali, fotocopiatrici, attrezzature. Ma non sono intervenuti sui contenuti dei programmi. Un’astensione che ha avuto una doppia valenza: dare autonomia ai palestinesi e, nello stesso tempo, deresponsabilizzarsi dai contenuti. Soprattutto quando è cominciata la polemica sui programmi scolastici palestinesi che – sosteneva un think tank della destra israeliana, poi smentito da diversi rapporti stilati dall’Unione Europea – avrebbero incitato all’odio. Una vera e propria bolla di sapone, sostengono i palestinesi, che però ha impegnato per molto tempo tutti quanti: israeliani, Anp, europei. I nuovi manuali palestinesi, caso più unico che raro, sono tutti su internet. Li si può tranquillamente consultare, stampare, riprodurre dal computer di casa. Dalla prima elementare all’ultimo anno delle superiori. Che si tratti di matematica, arabo, religione, storia, geografia, scienze. A guardarli, non sembrano molto pericolosi. Né dal punto di vista del conflitto, né quando si osservano con occhi particolari. Come quelli di una donna. I disegni riproducono, anzi, un modello di vita sociale che prova a essere politicamente corretto. Ci sono molte donne a capo scoperto, qualcuna velata, moltissime che lavorano e altre che rispecchiano il modello semplice di una famiglia unita. Bambini e bambine sono chiamati a compiere gli stessi doveri, dal pulire la casa ad aiutare i vecchi, dall’evitare di gettare cartacce per terra a lavarsi per bene i denti. Di odio, a dire il vero, non se ne vede. E a partecipare alla definizione dei programmi non sono stati solo i laici di Fatah, professori, professionisti, insegnanti, tecnici. Ci sono stati anche alti dirigenti di Hamas, in un tempo nel quale il movimento integralista non riconosceva neanche l’Autorità nazionale palestinese. Per il programma di geografia, per esempio, era calato a Ramallah anche uno dei docenti dell’università di Hebron, Aziz Dweik, che nel febbraio 2006 è diventato lo speaker del parlamento palestinese, come deputato di Hamas. Con lui, dice Abu Humos, non c’è mai stato nessun problema. Anzi. “Ho partecipato, per l’esattezza, alla stesura di ben sette volumi dei nuovi programmi scolastici”, precisa lo speaker del parlamento. “Ora c’è bisogno di pensare agli aggiornamenti – prosegue -, soprattutto per quanto riguarda le materie scientifiche”. Nessun accenno, insomma, a problemi di teologia o di islamizzazione dell’educazione: il geografo Dweik è più interessato a dare ai ragazzi gli strumenti adatti per interpretare il presente. Nonostante le differenze politiche, dunque, la costruzione dei programmi scolastici ha rappresentato sinora un’oasi, un posto particolare, una sorta di laboratorio in cui costruire una nuova identità palestinese. E in cui tutti i frammenti della società e della cultura di un posto così piccolo sono stati rappresentati. “Quel lavoro lo abbiamo fatto gratis. Nessuno ci ha pagato lo straordinario”, dice con orgoglio Suleiman Rabadi. È il preside del College de la Salle. Quella scuola che tutti chiamano, a Gerusalemme, i Frères. Tradotto: la più importante scuola privata della parte araba della città, l’istituto da dove escono – da 130 anni – le èlite palestinesi. Musulmane e cristiane. Prima di arrivare a dirigere i Frères, il professor Rabadi insegnava all’università di Bir Zeit, e tra i suoi allievi c’era anche ustaz Jibril. Perché la Palestina è veramente un posto piccolo, e le èlite sono una piccola comunità. Come altri tra i suoi colleghi, anche Suleiman Rabadi è stato chiamato a dire la sua sui programmi scolastici. Per amor di precisione, si è occupato di “questioni contemporanee” per l’undicesima classe, la penultima delle superiori. Di quella esperienza, della costruzione dal nulla di una educazione palestinese, Suleiman Rabadi parla con orgoglio pacato. Come fanno, del resto, tutti i protagonisti. “Orgogliosi, certo, lo siamo stati e lo siamo ancora oggi”, spiega Rabadi. “La sensazione – prosegue – è stata quella di poter finalmente controllare il nostro destino”.
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