tratto da: Beniamino Benjio Rocchetto
venerdì 3 settembre 2021 20:20
Anhar al-Dik si stava preparando a partorire sotto stretta sorveglianza quando un giudice militare ha cambiato i termini della sua incarcerazione.
Di Gideon Levy e Alex Levac – 3 settembre 2021
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Ecco quello che Anhar al-Dik, una donna palestinese di 25 anni e già madre di una bambina, ha scritto dalla prigione di Damon, a sud di Haifa, dove è stata incarcerata al nono mese di gravidanza: “Conoscete il cesareo. Come sarà eseguito all’interno del carcere, con me ammanettata e sola? Sono davvero sfinita. Il mio bacino è dolorante e le gambe mi fanno male dal dormire su un letto di prigione“, ha scritto in una lettera trasmessa alla sua famiglia dal suo avvocato. “Non ho idea di dove sarò dopo l’operazione e di come muoverò i primi passi dopo il parto con l’aiuto di una guardia israeliana che mi terrà per mano disgustata“
“Mi metteranno in isolamento con il mio bambino dopo il parto, a causa del coronavirus. Il mio cuore soffre per questo. Non ho idea di come lo guarderò o di come lo proteggerò da rumori spaventosi. Non importa quanto io sia forte, mi sentirò impotente di fronte al male che stanno facendo a me e agli altri prigionieri.
“Chiedo a ogni persona d’onore libera di fare qualcosa, anche con le parole, per il bene di questo bambino. La sua sorte dipende da tutti coloro che possono aiutare. Mi manchi, Giulia, figlia mia: vorrei poterti abbracciare e stringerti forte al cuore. È impossibile esprimere a parole il dolore che ho dentro. Cosa farò se dovrò partorire lontano da te, con le mani legate?“
Fino a giovedì sera, sembrava che avrebbe dovuto partorire la prossima settimana sotto stretta sorveglianza in un ospedale israeliano. Ma poi un giudice militare, il Maggiore Sivan Omer, ha deciso di rilasciarla su cauzione di 40.000 shekel (10.000 euro) e di porla agli arresti domiciliari a casa di sua madre, dove è sotto sorveglianza, che include l’osservazione medica e un controllo settimanale alla stazione di polizia di Modiin Illit. Forse il parto sarà un po’ più facile, dopotutto.
La sua famiglia, tuttavia, si chiedeva perché avesse dovuto essere imprigionata, e per così tanto tempo. Secondo la sua famiglia, sin dalla sua prima gravidanza, Anhar ha sofferto di disturbo bipolare e depressione. Questa è l’unica spiegazione, dicono, per quello che ha fatto lo scorso 8 marzo, quando ha abbandonato Giulia, la figlia di 2 anni, e si è recata nell’avamposto di coloni non autorizzato e illegale di Sde Ephraim, non lontano da casa sua, dove ha preso un coltello da cucina e ha cercato di accoltellare una donna, secondo l’accusa. All’epoca era al quarto mese di gravidanza ed è stata trattenuta in custodia cautelare fino alla conclusione del procedimento contro di lei, che è tuttora in corso, in una delle prigioni più tetre e squallide di Israele, dopo essere stata accusata di tentata aggressione. La corte non ha riconosciuto il suo problematico stato mentale. E Israele non mostra pietà per i palestinesi, anche se sono donne incinte.
Siamo andati a casa della sua famiglia, nel villaggio di Nima, nella Cisgiordania centrale. Aisha, la madre di Anhar, ha 61 anni e Muthea, il fratello maggiore di Anhar, dentista, si è laureato in Russia, ne ha 43. Anhar non è mai stato politicamente attivo, ci dice.
Giulia, con le treccine, scorrazza in mezzo a noi. Bacia l’immagine di sua madre sullo schermo del cellulare e il suo viso si illumina di gioia. “Mamma, mamma.” Nella foto sua madre è una bella donna sorridente. La famiglia dice che la sua vita si alterna tra periodi buoni e meno buoni.
Anhar si è laureata in una scuola infermieristica a Ramallah, ma non ha mai esercitato la professione. Ha sposato un uomo del posto, un impiegato di 30 anni di nome Thaar al-Haj’a. Una foto dei due in gita mostra una giovane coppia durante quello che sembra un momento di felicità.
Un mese dopo essere rimasta incinta di Giulia, la sua famiglia ha notato cambiamenti radicali nel comportamento di Anhar. In un’occasione si chiuse in casa chiudendo porte e finestre, in un apparente attacco di panico. Un’altra volta diede fuoco alle tende, e una volta salì sul tetto e minacciò di saltare. In tutti questi casi, non ricordava nulla in seguito. Ci sono stati anche attacchi di rabbia e violenza contro la sua famiglia, anche contro Giulia, e attacchi di depressione.
Lo psichiatra Dr. Zvi Fishel, direttore del reparto chiuso n. 3 presso il Centro di Salute Mentale Geha in Israele, conferma che la gravidanza può sicuramente causare l’insorgenza di malattia o instabilità mentale, sebbene il fenomeno sia più comune dopo il parto.
Anhar è stata portata da due psichiatri. La prima, la dottoressa Abdel-fattah Alawi, di Ramallah, le ha prescritto dei farmaci, che l’hanno aiutata per un tempo molto breve, prima che cadesse di nuovo in depressione. In seguito il dottor Samah Jaber, uno specialista di salute mentale di Kufr Aqab, ha prescritto un farmaco diverso.
Fino all’8 marzo, la vita di Anhar si alternava tra stabilità e depressione, scandita da attacchi di rabbia. Quel giorno, la Giornata Internazionale della Donna, suo marito è andato a lavorare la mattina e lei è rimasta sola con Giulia.
La famiglia di Haj’a possiede un terreno su Jabal al-Risan, una collina che i coloni dell’avamposto illegale di Sde Ephraim hanno sequestrato con la forza. La famiglia andava a farci delle scampagnate lì. Il 5 febbraio, un colono di nome Eitan Ze’ev ha ucciso Khaled Nofal, un ragioniere di 34 anni sposato e con un figlio, del vicino villaggio di Ras Karkar, dopo essere arrivato, disarmato, all’ingresso dell’avamposto nel cuore della notte in circostanze poco chiare. Lo stesso colono è stato successivamente accusato di aver sparato a un altro palestinese ed è sotto processo con l’accusa di aggressione aggravata.
Verso le 9 del mattino in quel giorno di marzo, Anhar lasciò improvvisamente la sua casa, senza dirlo a nessuno, lasciando da sola la piccola Giulia. Quasi immediatamente, il padre di suo marito, che vive nello stesso edificio, si accorse che sua nipote era sola e ha chiamato il padre della bambina e il fratello di Anhar. La famiglia si è organizzata rapidamente. Nulla di buono, lo sapevano, poteva venire dalla scomparsa di Anhar; era chiaro che poteva essere pericolosa per se stessa e anche per gli altri, e poteva anche perdersi. La famiglia si divise in tre gruppi di ricerca. Il fratello di Anhar, Muthea, e suo suocero, Ahmed Haj’a, 50 anni, partirono per Jabal al-Risan, gli altri due andarono in direzioni diverse.
Poi suo fratello e suo suocero la videro vagare sulla collina vicino all’avamposto, che dista circa due chilometri da casa sua, in linea d’aria. Erano troppo lontani per segnalarle e avevano anche paura di avvicinarsi. Incontrando un colono che pascolava il suo gregge, gli dissero dello stato mentale di Anhar e che era incinta, e gli chiesero di informare gli altri coloni.
Secondo l’atto d’accusa presentato dal pubblico ministero militare in aprile al tribunale militare di Ofer, Anhar ha preso un coltello dalla cucina dell’avamposto e ha cercato di pugnalare un colono. La donna non è rimasta ferita, ma Anhar è stata colpita e ferita da qualcuno. L’accusa afferma che un colono l’ha minacciata con una pistola e lei ha lasciato cadere il coltello. È apparsa tre giorni dopo tramite video dall’aula del tribunale, dove era stata portata dopo il suo arresto, con il viso ferito e contuso.
Nel frattempo, coloni, agenti di polizia e soldati videro Muthea e Ahmed, procedendo ad ammanettarli e arrestarli. Inizialmente sospettati di collaborare al tentativo di attacco di Anhar, furono prelevati per l’interrogatorio e rilasciati circa un’ora dopo. Spiegarono le circostanze dell’incidente e le condizioni di Anhar agli agenti del servizio di sicurezza dello Shin Bet che li hanno interrogati. Anhar, è stato detto loro, era stata portata in ospedale per essere medicata ed era in arresto. I due erano sicuri che presto sarebbe stata rilasciata, date le sue condizioni. Ma sei mesi dopo, era ancora in prigione. Per tutto questo periodo le fu concessa una sola visita, dal marito, e pianse per tutto il tempo. Le telefonate erano fuori discussione, ovviamente.
Il suo avvocato, Akram Samara, ha chiesto più volte il rilascio di Anhar per motivi medici, ma un esame ordinato dal tribunale effettuato da un medico israeliano l’ha giudicata idonea a sostenere un processo. L’avvocato Samara ha chiesto un secondo parere. Ha anche suggerito che Anhar sia trasferita al centro di salute mentale di Ramallah invece di essere detenuta in prigione. Un medico parlando a nome della famiglia ha notato che c’era una seria preoccupazione che partorire in prigione, tutta sola, avrebbe aggravato ulteriormente il suo stato mentale.
Lunedì di questa settimana, la famiglia è stata informata che il parto era stato spostato al 10 settembre, invece della data originariamente prevista, il 20 settembre. La coppia ha deciso all’inizio della gravidanza di chiamare il piccolo Ala. Secondo la legge, lui può stare con sua madre in prigione fino all’età di 2 anni. Se viene nuovamente imprigionata, Anhar sarà la prima donna palestinese con un bambino in una prigione israeliana dal 2008.
Il Servizio Carcerario Israeliano ha detto ad Haaretz questa settimana che sono pronti ad occuparsi del bambino nella struttura di Damon.
Questa settimana, in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e fuori dalla stessa Damon, piccoli gruppi di manifestanti hanno chiesto il rilascio di Anhar. Sono riusciti ad alleggerire il crudele decreto, sia pure tardivamente e in maniera limitata.
Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.
Alex Levac è diventato fotografo esclusivo per il quotidiano Hadashot nel 1983 e dal 1993 è fotografo esclusivo per il quotidiano israeliano Haaretz. Nel 1984, una fotografia scattata durante il dirottamento di un autobus di Tel Aviv smentì il resoconto ufficiale degli eventi e portò a uno scandalo di lunga data noto come affare Kav 300. Levac ha partecipato a numerose mostre, tra cui indiani amazzonici, tenutesi presso l’Università della California, Berkeley; la Biennale israeliana di fotografia Ein Harod; e il Museo di Israele a Gerusalemme. Ha pubblicato cinque libri.

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