tratto da: Beniamino Benjio Rocchetto
sabato 3 luglio 2021 14:53
Dopo una notte fuori, Ahmad Abdu è salito sulla sua auto in una città vicino a Ramallah, dove la Polizia di Frontiera gli ha teso un’imboscata e gli ha sparato. La sua famiglia dice che i poliziotti lo hanno scambiato per suo zio
Di Gideon Levy e Alex Levac – 2 luglio 2021
Non molto tempo fa c’è stata una esecuzione analoga nei territori occupati. Un assassinio a sangue freddo, un’esecuzione senza processo, esattamente come l’atto di un’organizzazione criminale. Ma l’organizzazione che ha effettuato questo crimine opera in nome dello Stato di Israele: è l’Unità Speciale Antiterrorismo della Polizia di Frontiera.
Le riprese delle telecamere di sicurezza in strada non lasciano spazio a dubbi: Ahmad Abdu sale sulla sua auto parcheggiata, una MG blu, in un tranquillo e benestante quartiere residenziale della cittadina di El Bireh, adiacente a Ramallah. Sono le 4:37 del mattino e la strada è deserta. Accende la macchina, accende i fari. All’improvviso appare una Volkswagen Caddy grigia. Tre agenti Yamam in uniforme scendono dal mezzo e aprono il fuoco contro l’auto di Abdu. I lampi di fuoco sono visibili nell’oscurità. Abdu cerca di aprire la portiera ma cade, sanguinando copiosamente. I militari lo tirano fuori dall’auto, forse per verificare l’uccisione, trascinandolo per alcuni metri lungo la strada. Quindi lasciano il corpo intriso di sangue dove si trova e se ne vanno rapidamente.
L’evento si è verificato prima dell’alba del 25 maggio nel quartiere di Umm al-Sharayet a El Bireh. Abdu, un giovane di 25 anni del vicino campo profughi di Al-Amari, era tornato da una serata fuori con gli amici. Lo lasciarono vicino alla sua auto, che aveva parcheggiato sotto una baracca di lamiera fuori dal condominio di Al-Kiswani; suo zio, Mohammed Abu Arab, vive nel seminterrato.
Abdu non sapeva, né lo sapeva nessun altro, che era ricercato da Israele. Infatti, le forze di sicurezza palestinesi hanno detto alla famiglia dopo il suo assassinio che non avevano ricevuto una richiesta per arrestarlo e consegnarlo a Israele. Fatto sta che dormiva a casa e non cercava di nascondersi da nessuno, raccontano i familiari, aggiungendo che non era mai stato arrestato o interrogato dalle autorità per nessun motivo.
Abdu doveva sposarsi il mese scorso con Baraa al-Bau, del villaggio di Atara; aveva passato tutto il suo tempo ad organizzare il matrimonio e completare la costruzione della sua nuova casa di 90 metri quadrati nel campo profughi. Ha trascorso l’ultima sera della sua vita con Baraa, prima di uscire più tardi con i suoi amici, dove sono andati non è noto. Le ha promesso una sorpresa prima del matrimonio, ma è stato vago. La famiglia pensa volesse dire che sarebbe riuscito a completare la casa per il giorno del loro matrimonio.
Una settimana prima, il 18 maggio, aveva avuto luogo una manifestazione all’incrocio dell’Ufficio di Coordinamento Distrettuale all’ingresso nord di Ramallah. In quel periodo, era in corso l’operazione israeliana contro Hamas nella Striscia di Gaza, la Cisgiordania era in tumulto in solidarietà con gli abitanti di Gaza che venivano bombardati e i soldati delle Forze di Difesa Israeliane avevano il grilletto ancora più facile del solito. L’esercito sostiene che qualcuno alla manifestazione ha sparato ai suoi soldati. A quanto pare Abdu era un sospettato. Ma dopo che gli hanno sparato uccidendolo, suo zio, Abu Arab, è stato arrestato; è sospettato di aver sparato.
Quindi gli assassini di Yamam hanno identificato erroneamente la vittima? E perché doveva essere ucciso quando avrebbe potuto essere facilmente arrestato? Lo zio, tra l’altro, si è costituito alle autorità al termine dei tre giorni di lutto per il nipote e da allora è in stato di detenzione, sottoposto a interrogatorio; anche sua moglie è stata arrestata e poi rilasciata. La famiglia è convinta che gli agenti Yamam credessero di aver eliminato Abu Arab.
Le fotografie della MG blu mostrano fori di proiettile sul lato sinistro. Le foto del corpo di Abdu mostrano che è stato raggiunto da un proiettile alla spalla sinistra ed è stato apparentemente la causa della morte. I vicini accorsi sul posto lo hanno visto disteso a terra, sanguinante dalla bocca, probabilmente a causa di una ferita interna. I suoi gomiti erano contusi, apparentemente per essere stato trascinato sulla strada. Altri proiettili l’hanno colpito alla gamba sinistra.
Le testimonianze dei vicini, raccolte subito dopo la sparatoria da Iyad Hadad, ricercatore sul campo per l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, raccontano la stessa storia. Sentendo degli spari rompere il silenzio nella strada tranquilla, i vicini hanno guardato fuori e hanno visto gli agenti di polizia di Yamam. Quando hanno trovato il coraggio di scendere le scale, gli israeliani erano già partiti. Un vicino ha ricordato di aver sentito un debole grido di aiuto. Un altro udì un gorgoglio, poi il silenzio. Una vicina gridò dalla finestra: “L’hanno ucciso! L’hanno ucciso!”
L’ambulanza della Mezzaluna Rossa arrivata alle 4:45, dopo essere stata chiamata dai vicini, ha portato Abdu in un ospedale di Ramallah, dove ne è stata dichiarata la morte. I risultati dell’autopsia non sono ancora stati notificati alla famiglia.
Il Portavoce della Polizia di Frontiera Tamir Faro ha rilasciato questa settimana ad Haaretz la seguente dichiarazione: “Gli agenti Yamam stavano operando per prendere in custodia un fiancheggiatore dei terroristi. La sparatoria è stata eseguita secondo le regole di ingaggio. L’unità Yamam insieme alle organizzazioni di sicurezza continueranno a lavorare per la sicurezza pubblica, mettendo a rischio la propria vita, con determinazione e professionalità.”
Alle 7 del mattino dello stesso giorno, il “capitano Halabi” del servizio di sicurezza dello Shin Bet chiamò Ayman Abu Arab, un altro zio da parte di madre di Mohammed e chiese che suo fratello Mohammed Abu Arab si presentasse immediatamente alla struttura per gli interrogatori di Ofer. Ayman, che indossa una maglietta nera di Versace quando lo incontriamo, è un attivista di Fatah. È stato arrestato 13 volte e ha trascorso 14 anni e tre mesi nelle carceri israeliane. Ha 48 anni, Mohammed ne ha 43, e lavora come meccanico di bulldozer. Padre di cinque figli, Ayman ha due mogli e possiede due appartamenti, uno a El Bireh e l’altro ad Al-Amari.
L’ultima volta che Ayman ha visto suo nipote, quattro giorni prima che quest’ultimo venisse ucciso, Abdu gli chiese di trovargli un ulteriore lavoro per aiutare a finanziare il matrimonio e la costruzione della sua casa. Abdu era stato impiegato nella panetteria El Bireh che appartiene alla famiglia della sua fidanzata; prima era un addetto alla manutenzione nel comune di El Bireh. L’ultima sera della sua vita ha comprato del knafeh per la sua futura sposa e la sua sorellina.
Quando Ayman ha ricevuto la chiamata da Halabi, era ancora all’ospedale di Ramallah, stordito dal dolore, e stava organizzando il trasferimento del corpo di suo nipote per la sepoltura. Il capitano Halabi gli ha detto che era dispiaciuto per la morte di suo nipote, dice Ayman. “Sai perché è stato ucciso?” ha chiesto l’uomo dello Shin Bet, prima di rispondere alla sua stessa domanda, “perché ha aiutato suo zio, Mohammed”. L’ufficiale ha chiesto ad Ayman di portare Mohammed. Ayman gli disse che la famiglia era immersa nel dolore. Il capitano Halabi chiamò di nuovo alle 17:00, chiedendo che Mohammed si presentasse immediatamente.
“Avete fatto quello che avete fatto e ora volete Mohammed?” rispose Ayman. “Siamo in lutto. Mohammed è mentalmente distrutto. Dateci tre giorni per piangere. Quando finirà il periodo di lutto, verrà”.
Lo Shin Bet continuò a chiamare e richiamare Ayman, e nel frattempo Mohammed scomparve. La famiglia temeva che ora anche lui sarebbe stato assassinato, come Abdu. Mohammed ha insistito per non costituirsi fino alla fine del periodo di lutto. “Avete ucciso mio nipote, e ora volete che interrompa il periodo di lutto e accetti le condoglianze? Non verrò.”
Halabi è stato raggiunto dal “Capitano Sahar” e dal “Capitano Khalil” per effettuare le telefonate. Hadad, di B’Tselem, ha sentito uno dei tentativi di persuasione di Halabi. Halabi ha promesso che l’interrogatorio sarebbe stato breve.
Sabato sera, 29 maggio, al termine del periodo di lutto, i tre fratelli di Mohammed, Ayman, Karim e Amin, hanno accompagnato il loro fratello ricercato nella prigione di Ofer. Avevano chiamato l’agente dello Shin Bet per informarlo che stavano arrivando. Grandi forze li attendevano all’esterno. Mohammed è stato preso in custodia per un lungo interrogatorio nella struttura per gli interrogatori dello Shin Bet nel Complesso Russo nel centro di Gerusalemme.
Due settimane dopo, lo Shin Bet ha chiamato il fratello di Mohammed, Amin, chiedendo di portargli la moglie di Mohammed, Nisrin, 28 anni. La famiglia è certa che la richiesta di interrogarla era intesa a fare pressione su Mohammed. Fu rilasciata dopo sette ore, ma 10 giorni dopo le è stato chiesto di presentarsi per un ulteriore interrogatorio. Questa volta è stata trattenuta per cinque giorni prima di essere rilasciata. Il suo interrogatorio era incentrato sulla sua partecipazione alla manifestazione in cui sono stati sparati i colpi. Secondo la famiglia, il figlio di Mohammed aveva in mano un fucile giocattolo durante la manifestazione, alla quale avevano partecipato per curiosità.
Ayman dice di essere convinto che lo Shin Bet abbia ricevuto informazioni false. Chiede perché non hanno chiamato la famiglia in modo da poter consegnare Abdu, come hanno fatto con Mohammed, invece di giustiziarlo a sangue freddo e senza processo, nel cuore della notte.
“Chi è responsabile dell’uccisione? Chi risarcirà la famiglia?” Sono domande inutili alle quali non c’è e non ci sarà risposta.
Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.
Alex Levac è diventato fotografo esclusivo per il quotidiano Hadashot nel 1983 e dal 1993 è fotografo esclusivo per il quotidiano israeliano Haaretz. Nel 1984, una fotografia scattata durante il dirottamento di un autobus di Tel Aviv smentì il resoconto ufficiale degli eventi e portò a uno scandalo di lunga data noto come affare Kav 300. Levac ha partecipato a numerose mostre, tra cui indiani amazzonici, tenutesi presso l’Università della California, Berkeley; la Biennale israeliana di fotografia Ein Harod; e il Museo di Israele a Gerusalemme. Ha pubblicato cinque libri.

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