Hollywood, dove la Palestina esiste

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03 mar 2014

Battuto dal superfavorito “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, il film “Omar”, di Hany Abu-Assad, ha solo sfiorato la statuetta come miglior film straniero. Ma ha ottenuto un riconoscimento ben più importante 

 
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di Giorgia Grifoni

Roma, 3 marzo 2014, Nena News –  Anche se solo sfiorata, mai statuetta fu più significativa. Per la Palestina, per Israele, ma soprattutto per il mondo. Che sia o meno un messaggio politico, quello che è partito con la nomination all’Oscar come miglior film straniero per “Omar” di Hany Abu-Asad, una cosa è certa: la Palestina esiste. Esisteva all’ombra del muro di separazione come nei campi profughi di Siria, Libano e Giordania, ma ora esiste anche a Hollywood, dove per la prima volta nella storia un film scritto, girato e prodotto interamente da palestinesi è entrato in gara rappresentando un paese che, a detta di molti, non esiste.

Ci aveva provato Elie Suleiman già nel 2002, presentando il suo “Divine Intervention” rifiutato dalla commissione degli Academy Awards: le ammissioni dovevano essere registrate sotto il nome della nazione di origine e la Palestina, secondo la commissione, non era una nazione. Poi nel 2005 “Paradise now”, dello stesso Abu-Asad, era stato candidato come miglior film straniero con la dicitura “Autorità palestinese”: solo le proteste del regista erano riuscite a far cambiare il paese di origine in “Territori palestinesi”. Questa volta, nessuno ha dovuto fare pressione. La commissione che, come ha notato recentemente il quotidiano Haaretz, “è a forte presenza ebraica”, ha deciso da sola.

Sarà per il riconoscimento all’assemblea generale delle Nazioni Unite nel novembre del 2012. Oppure per la campagna internazionale di boicottaggio nei confronti di Israele che ha messo alla gogna proprio una star di Hollywood, Scarlett Johansson, accusata di essere il testimonial di un’azienda israeliana, la SodaStream, che ha la sua fabbrica principale in uno dei più grandi insediamenti illegali della Cisgiordania occupata, Maale Adumim. Fatto sta che qualcosa è cambiato. Chissà che le sale cinematografiche non diventino, oltre che veicolo di consapevolezza, anche veicolo di cambiamento.

Come far passare un messaggio tanto complesso quanto il conflitto israelo-palestinese a un pubblico avvezzo ai partiti presi? Come spiegare la paranoia del collaborazionismo che si genera sullo sfondo dell’occupazione? “Già durante le riprese di Paradise Now – ha raccontato il regista al Wall Street Journal – ero divorato dalle paranoie: pensavo che nella mia squadra ci fosse una spia (degli israeliani, ndr), un traditore. E mi sono chiesto: ‘Come posso spiegare tutto questo a un pubblico che non ha idea di come si viva sotto occupazione?’ La migliore soluzione per esplorare la paranoia è l’amore. In amore si diventa facilmente paranoici. Si viene accecati dalla gelosia. Così ho cercato di mettere l’amore al di sopra dell’occupazione”.

Il tema dell’amore è servito anche a sfidare la consueta dicotomia del palestinese combattente per la libertà/terrorista che attanaglia qualsiasi rappresentazione, cinematografica o letteraria, del conflitto israelo-palestinese. Negli ultimi anni, come si legge in un articolo di Khaled Diab sul quotidiano Haaretz, molti artisti stanno provando a rappresentare i palestinesi non più solamente come eroi o cattivi, ma soprattutto come esseri umani: ora c’è una preferenza a concentrarsi sugli aspetti umani della violenza politica. “Se si guarda alla storia e ai fallimenti dei politici – ha dichiarato Abu-Asad alla cinemateca di Tel Aviv – sono stati gli artisti a fare un po’ più di chiarezza al mondo”.

Non è solo una vittoria morale per l’immagine della Palestina, però. Girato tra Nazareth e la Cisgiordania, con il 95 percento dei fondi (su un milione e mezzo di dollari) provenienti da investitori palestinesi (sia in loco che nella diaspora), “Omar” segna forse anche un primo passo verso l’indipendenza del cinema palestinese. Il produttore e attore Walid Zuaiter, che nel film interpreta l’ufficiale israeliano che costringe il giovane Omar a collaborare con l’esercito, ha raccontato al quotidiano the National quanto sia stata dura realizzare una pellicola senza i fondi stanziati dall’Europa, la prassi per la maggior parte dei film che parlano del conflitto. “Stavo lì, sul tetto di casa della madre di Hany – ricorda Zuaiter – a Nazareth. Nel seminterrato ci sono i suoi uffici di produzione. Il cellulare non prendeva bene, quindi sono salito sul tetto e, tra i rumori della strada, il traffico, le sirene e la chiamata alla preghiera dalle moschee, sono riuscito a mantenere la conversazione con gli investitori e a recuperare quel quarto di finanziamento necessario per cominciare a girare”.

La lotta per ottenere i fondi è durata fino all’estate scorsa, tra depressione e incoraggiamenti. “Mi ha davvero fatto deragliare emotivamente – continua Zuaiter – Tutto si schiantava nello stesso momento. Avevo una grande responsabilità: quella di rendere qualcosa a tutti gli investitori, perché parte del sogno è chieder loro di continuare a investire e contribuire alla creazione di un fondo per il cinema palestinese”. “Omar” non avrà vinto l’Oscar, ma il sogno sembra più vicino. Nena News.

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