27 mar 2011
Ma Israele che sta facendo in questi giorni così caldi per il Medio Oriente? Se lo chiede la stampa nazionale. E, forse, anche l’amministrazione americana. Perché con Gaza sull’orlo del precipizio, l’Egitto ancora al bivio, la Siria in fiamme e il Libano e la Giordania sul punto di esplodere, ecco in mezzo a tutto questo c’è uno Stato, Israele appunto, che decide di non decidere. Meglio: sta zitta. Nessuna attività diplomatica, nessuna dichiarazione politica, nessuna mossa.
Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano e leader del partito di destra “Likud” (foto Oded Balilty / Ap Photo)
L’«arte del non far nulla», sintetizzano i commentatori israeliani. Soprattutto da parte di chi, come il premier Benjamin Netanyahu, da sempre batte il tasto della sicurezza. Bibi è preoccupato che i tumulti in atto possano produrre soprattutto instabilità, quanto meno nel breve e medio periodo. E che non garantiscano il rispetto degli accordi passati e futuri. Non solo con i palestinesi. Ma anche con gli altri Stati.
Il premier teme l’ingresso in campo politico – magari anche con il voto popolare – di forze radicali animate da propositi di distruzione dello Stato ebraico. Da quanto sta succedendo nel mondo arabo, analisti politici in Israele traggono tuttavia conclusioni divergenti.
Gli eventi in atto, ha scritto venerdì il commentatore Aluf Benn su Haaretz, marcano «gli ultimi giorni degli accordi Sykes-Picot della prima guerra mondiale che portarono alla divisione del Medio Oriente in Stati separati. È evidente che la carta geografica della regione negli anni a venire mostrerà nuovi o rinati Stati indipendenti come il Sud Sudan, il Kurdistan, la Palestina, forse la Cirenaica». Insomma: un panorama diverso e più articolato nel quale le carte risulterebbero sparigliate, offrendo spazi di manovra più larghi allo stesso Israele.
Un altro giornalista, Avi Issacharov, si chiede se il potere del presidente Bashar al Assad in Siria – «un nemico di confine che Israele se non altro conosce e con il quale ha stabilito alcune tacite regole del gioco» – non sia anch’esso alle ultime battute. Ma avverte pure che l’esperienza insegna come «regimi regionali, davanti a sommovimenti interni, siano ricorsi in passato, talora con profitto, alla strategia della tensione con un nemico esterno».

Secondo altri commentatori, proprio le rivolte dimostrano però – almeno per il momento – che questa strategia potrebbe non pagare più. «In Medio Oriente – analizza l’orientalista Guy Bechor – è successa una cosa sconvolgente: il solo collante che univa le sette, le religioni, le tribù, le nazionalità e le minoranze, che si odiano reciprocamente, era l’ostilità verso Israele. E questa colla non funziona più».
(leonard berberi)
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