di Doud al Ahmar
Peled-Elhanan (*) ha analizzato nel suo ultimo libro le rappresentazioni della Palestina nei libri scolastici maggiormente adottati dalle scuole superiori israeliane. Il quadro ne esce sconfortante.
Il saggio mette subito in evidenza i principi cardine sui quali si poggia la propaganda israeliana e i concetti che costituiscono il fil rouge di tutti i libri di testo: l’antisemitismo, la minaccia araba, il diritto storico degli ebrei a rientrare nella propria terra.
Ma la principale accusa che la docente muove ai libri sottoposti ad analisi è che i Palestinesi non sono mai presentati come esseri umani ma sempre come un problema. Le immagini che illustrano i testi scolastici non mostrano mai persone fisiche ma luoghi o conglomerati urbani, e gli arabi – la parola “palestinese” non viene mai usata – sono mostrati secondo degli stereotipi razzisti che ne fanno esseri primitivi rispondenti a pratiche tribali e arcaiche, nemici perciò della modernità e al di fuori della legge.
Nei testi di storia aleggia sempre l’idea che dal 1948 in poi i palestinesi siano scappati dalle loro abitazioni abbandonando villaggi e terre, e rifugiandosi “altrove” a causa di una potenza assimilabile a una forza naturale o come se il processo si sia autogenerato. Con la stessa sapiente spersonalizzazione della guerra e delle violenze vengono giustificate persino le principali stragi secondo una “logica mitologica” spiega l’autrice. I massacri di Deir Yassin, Kybia, Kaffer Kassim, sono acutamente riportati dai libri, ma si tratta di “eventi” che trovano la loro legittimità storica e militare nel complesso e quasi imperscrutabile disegno dell’Indipendenza e della difesa del popolo ebraico sempre minacciato di essere cancellato.
Per giustificare l’occupazione odierna dei territori si fa appello a una democrazia difensiva che esige il controllo scrupoloso delle “frontiere mobili” che contengono una popolazione pericolosa in termini militari e demografici. Nei testi viene inoltre sempre esaltata la singolarità della popolo ebraico di cui la comunità internazionale è incapace di comprenderne azioni e reazioni. “Nessuno può capire la nostra condizione meglio di noi” è il sottinteso che subdolamente suggerisce agli studenti come il Diritto Internazionale sia inapplicabile nel caso sui generis dello Stato di Israele. Quella che in altri termini si chiama impunità.
Peled-Elhanan insiste poi sulla sintassi e la semantica utilizzate nei testi. I vocaboli non sono mai utilizzati a caso (ad esempio l’uso del termine Terra d’Israele piuttosto che Stato ) così come ne è sempre progettata l’elusione, si veda il caso più eclatante dell’assenza del termine Palestina. Anche se a dire il vero esiste un caso in cui l’aggettivo palestinese viene utilizzato: quando si tratta di associarlo al terrorismo.
Nena News
(*) Nurit Peled-Elhanan è docente presso la Hebrew University di Gerusalemme. Co-fondatrice del Tribunale Russell sulla Palestina, è stata altresì insignita dal Parlamento Europeo del Premio Sakharov per i Diritti Umani e la Libertà di Espressione.
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