Lo squillo del cellulare riesce a fatica a farsi sentire perchè il martello pneumatico dei bulldozer rimbomba nelle orecchie e si diffonde per tutto il villaggio di Sur-Baher. “Non abbiamo ancora letto un vostro comunicato sulla ripresa del processo di pace. Ci sembra che sia davvero un evento storico da sostenere!”. In effetti, immersi come siamo nella condivisione della quotidiana lotta per sopravvivere alla morsa del sistema di occupazione, non abbiamo proprio pensato di pronunciarci dalla Palestina sui prossimi Peace-Talks. Gli amici dall’Italia hanno sentito ripetere in TV l’annuncio di questo “storico evento”, ma da qui, noi percepiamo l’enorme differenza di prospettiva che l’abisso di ingiustizia in cui sono immersi i Territori Occupati impone ad ogni nostro pur ostinato ottimismo.
Insomma, parlare di pace o meglio sperare in una giusta pace, da qui è davvero difficile perché il punto di osservazione degli oppressi è preciso: sono i punti-cardine della colonizzazione e del sistema di apartheid, dei confini del ’67 e del muro, del diritto al ritorno e dell’acqua, della violazione 24 ore su 24 esattamente di tutti i diritti umani fondamentali. Ma paradossalmente, chi sta in Italia si accontenta dell’ipocrita “ripresa del processo di pace” senza chiedersi perché anche stavolta, puntualmente, di quei nodi che abbiamo nuovamente elencato, Israele non accetta che se ne metta sul tavolo neppure uno come condizione per la pace!
Ci fa sorridere amaramente, mentre vediamo dappertutto gru al lavoro in insediamenti sempre più enormi, la vignetta sul Giornale di Gerusalemme con Netanyahu che, partendo per Washington, raccomanda agli operai di una colonia: “Ehi, fermatevi al salotto; aspettate che io torni per finire il lavoro…”(Haaretz, 29 agosto). Ma c’è davvero poco da ridere a leggere sullo stesso giornale Netanyahu che ripete: sulle colonie non accettiamo di porre alcuna condizione.
Certo, le speranze degli oppressi non sono state ancora sepolte dalla quantità di violenza che si è riversata sui palestinesi in quasi cento anni, ma dobbiamo riconoscere che il palcoscenico dei processi di pace non ha finora aperto concreti spiragli di giustizia.
Per noi, insomma, l’unico “comunicato stampa” viene da chi oggi soffre e lotta a nord e a sud, ad est e ad ovest di questa terra che più che come “due stati per due popoli”, può forse solo essere abitata da due popoli in un unico stato. Dai quattro punti cardinali della Palestina occupata (chissà come mai viene immancabilmente dimenticato questo aggettivo) vorremmo che raggiungessero i leader quelli che dovrebbero essere veramente i punti-cardine del processo di pace.
Allora facciamo l’unica cosa possibile dovendo scrivere questo editoriale dai Territori Occupati. Proviamo a guardate al prossimo negoziato di pace da qui, da est e da ovest, da nord e da sud di una terra distrutta che non merita davvero di subire l’ennesima passerella di negoziatori del nulla.
Il processo di pace, da est
Siamo stati invitati qualche giorno fa da un caro amico che abita da sempre a Sur-Baher, un quartiere arabo di Gerusalemme Est, per aiutarlo a… demolire la sua casa! Omar fin dal 1993 ha chiesto alla municipalità di Gerusalemme di costruire, nella sua proprietà, un altro edificio per la sua numerosa famiglia. Ma è risaputo che a Gerusalemme est non viene quasi più concessa (ai palestinesi, s’intende, visto che gli ebrei sono invece incoraggiati a costruire sulla terra non loro)nessuna autorizzazione. Dal 1995 Omar, dopo aver cominciato a costruire, ha iniziato a pagare ogni mese una sanzione di 140 euro, con la promessa di poter così sanare la sua situazione. Ma dopo quindici anni, a lui come ad altre migliaia di palestinesi, è arrivato l’ordine di demolizione, nonostante il pacco di ricevute di pagamento che mostra a tutti sconsolato. Una clausola specifica che, se la casa fosse stata ancora in piedi alla fine di agosto, sarebbero entrati in funzione le ruspe israeliane e l’esercito, con relativo conto salato da pagare: altri 13.500 euro.
Come rispondere allora, da qui, impotenti anche noi di fronte al dolore delle donne e dei bambini che vedono distrutta la loro casa, a chi ci chiede di annunciare con fiducia i prossimi colloqui di pace? Che “dichiarazione” rilasciare se non il nostro sgomento? Che “auspicio” esprimere da qui se non quello che finalmente qualcuno smascheri questa ipocrisia in cui tutti sembriamo restare imbrigliati?
Abbiamo sentito qui a Gerusalemme cosa pensa il ministro degli esteri israeliano Lieberman del prossimo processo di pace: “Abbiamo già fatto troppi regali ai palestinesi. Nessuno si illuda: non ci sarà nessuno stop alle colonie”.
E più aumentano davanti ai nostri occhi le macerie della casa di Omar, più diminuisce ai nostri occhi la concreta speranza in una possibile affermazione della giustizia.
“Non è pensabile che dobbiamo pagare un nuovo prezzo per il piacere di conversare con i palestinesi” -rimarca il ministro. Per evitare attriti in merito fra Israele e Stati Uniti basterà che i negoziatori concordino che l’espansione delle colonie e dei rioni ebraici nelle aree contese deve esser vista per quello che è realmente: la naturale e necessaria crescita demografica della popolazione ebraica. Il 26 settembre -e questo non si discute- dovranno essere riaperti i cantieri edili ebraici sia a Gerusalemme est, dove sono state approvate già 1600 unità abitative, sia in Cisgiordania, dove dovranno essere costruite altre 2000 case nelle colonie esistenti.(…) Non abbiamo nulla da temere. Si tratterà di un evento come quelli avvenuti a Madrid (1991) e ad Annapolis (2007). E’ bene che tutti abbassino le loro aspettative”. Come a dire: non si preoccupino i più fedeli difensori di Israele. Nessuno avrà la sfrontatezza di accusare Israele e di imporle rinunce territoriali o militari.
Il processo di pace, da sud
La scorsa settimana siamo rimasti letteralmente paralizzati nell’arrivare ad Al-Araqib due giorni dopo la demolizione dell’intero villaggio beduino, nel Negev. Davanti ai nostri occhi solo un deserto di macerie e una donna sotto una tenda, intontita dal dolore. Tiene in mano le chiavi della sua umile capanna che l’esercito ha demolito per la quarta volta, dal 27 luglio al 17 agosto, estromettendo dal villaggio 300 palestinesi, cittadini di Israele.
Da Al-Araqib guardiamo ai prossimi “colloqui di pace” e ci chiediamo: la speranza rimasta in piedi dopo sessant’anni di devastazione sociale, culturale, morale e politica della Palestina, sarà più grande delle tombe del cimitero del villaggio, unica parte risparmiata dalle ruspe di Israele? E se le parole contano, a cosa stanno pensando gli esperti americani della diplomazia quando rassicurano il mondo affermando che “siamo pronto a risolvere in un anno la questione dello status finale”?
Il processo di pace, da nord
Con i giovani di Ricucire la Pace siamo stati nella Valle del Giordano, lì dove le forze israeliane hanno demolito due volte il villaggio di Al-Farsyia nell’arco di 10 giorni; la prima volta il 19 luglio e di nuovo il 5 agosto. Tali azioni illegali hanno portato alla distruzione di 116 strutture e allo spostamento di 129 persone, 63 delle quali bambini. Con in mano una scarpina impolverata raccolta dalle macerie, che vorremmo spedire direttamente a Washington, da Al-Farsyia guardiamo ai prossimi “colloqui di pace” e ci chiediamo: se la legalità internazionale esce clamorosamente sconfitta da decenni di violazioni di tutte le convenzioni e leggi internazionali, che senso hanno i commenti di questi giorni di chi comincia a festeggiare, ancora prima che cominci, questo nuovo vertice di pace come “una evidente vittoria” di Obama?
Il processo di pace, da Ovest
Se poi volete una dichiarazione che venga da ovest, sappiate che BoccheScucite è riuscito in questi giorni ad entrare nella prigione di Gaza. E se ci chiedete una parola di speranza per il prossimo vertice, dobbiamo ammettere che al cosiddetto valico di Eretz, la speranza… non voleva proprio entrare insieme a noi… Facciamo presto a bollare ogni dichiarazione critica e dura su Washington 2010 come estremismo disfattista. Anche stavolta, stando nell’inferno di Gaza, abbiamo dovuto riempire i nostri occhi di così tanta devastazione che ci appare solo ingenuo -se non falso- chi scambia la pace per il mantenimento di un ben congegnato imprigionamento di un popolo intero, che a Gaza appare (o dovrebbe apparire) macroscopico, ma che in Cisgiordania è solo più capillarmente e diffusamente realizzato. D’altra parte, se proprio in questi giorni sono stati tutti concordi nel premiare i massimi vertici dell’esercito responsabili del massacro di Piombo Fuso e di quello immensamente più limitato della nave dei pacifisti, non ci stupiremo se ci diranno che proprio non avevano trovato un solo minuto per “trattare” di Gaza.
Per questo, ci proponiamo esattamente il contrario: vogliamo mettere al centro dei prossimi giorni proprio Gaza. Questo numero di BoccheScucite è interamente dedicato alla Striscia e nei prossimi vi porteremo lì dove il processo di pace sprofonda nei tunnel, a Rafah, o dove si scioglie tra le onde del mare pescosissimo di Gaza interdetto ai suoi pescatori.
Cosa augurarsi allora pensando a chi fa le valige per Washington? Prendiamo in prestito il commento di Gideon Levy allo storico boicottaggio che in questi giorni sconvolge il mondo della cultura israeliana, dopo che più di cinquanta artisti di teatro si sono rifiutati di esibirsi nella colonia illegale di Ariel in Cisgiordania; una coraggiosa scelta di coscienza contro l’occupazione che dimostra quanti israeliani non accettino più di essere marionette pretendendo di essere attori delle proprie scelte, anche rischiando la pagnotta e la fama:
“Non marionette ma attori”.
Auguriamo questo anche ad Obama, che tante speranze aveva alimentato.
E ci rivolgiamo alla “marionetta” di Abu Mazen, che deve davvero provare ad essere portatore del “dramma” del suo popolo.
E sospendiamo l’applauso per Netanyahu, responsabile ultimo di questo “teatro dell’assurdo” che sta distruggendo, insieme al popolo palestinese, anche il suo stesso popolo israeliano.
BoccheScucite
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