Mercoledì 03 Aprile 2013 21:05 Palestina/Israele
Esiste in questo conflitto una frase, per la precisione quattro parole male articolate in lingua inglese che avrò sentito ripetere decine di volte.
Negli accompagnamenti, ai posti di blocco, sugli autobus.
“I tell you something” ovvero: “Ti dico qualcosa”.
Questa frase è diventata per me uno dei simboli del mio vivere nei Territori Palestinesi occupati, in mia presenza diverse bocche hanno pronunciato questa frase a effetto.
Un simbolo del conflitto e del bisogno umani di esprimersi, di comunicare, perchè senza comunicazione non esistiamo.
Quando la sento arrivare comprendo di essere in presenza di qualcosa di molto importante per la persona che ho davanti, qualcosa che rappresenta il suo essere più profondo, la sua storia, i suoi dolori, il suo cuore pulsante.
Tutti gli interlocutori espongono queste parole con motivazioni differenti, spesso contrastanti se non opposte tra di loro.
I primi a utilizzarla spesso sono i *palestinesi*: per ricordarti il motivo per cui sei sul campo, a testimoniare un’ingiustizia quotidiana che i pastori subiscono non con rassegnazione, ma con la serena consapevolezza di chi è conscio dei propri diritti.
“*Ti dico qualcosa: questo lembo di terra su cui stiamo pascolando è mio, era di mio padre e prima che appartenesse a mio padre lo lavorava mio nonno. Questo campo appartiene alla mia famiglia da generazioni. Io sono cresciuto qui. Ho visto i miei figli nascere e crescere tra queste colline.
Noi non vogliamo il male di nessuno, noi vorremmo vivere in pace, ma i coloni ci attaccano e bruciano i nostri raccolti e i soldati distruggono le nostre case con le ruspe. Nessuno ci vuole qui.*
*Dio ci dà la forza di resistere, anche se quest’ anno la pioggia tarda ad arrivare, le colonie si espandono mese dopo mese e l’occupazione militare è sempre più pressante.*
*Non ci viene dato il permesso per costruire delle case nuove, delle stalle per animali, dei pozzi per la raccolta di acqua piovana. Quando andiamo a fare la spesa a Yatta veniamo fermati per i posti di blocco e se non ci fossero gli attivisti internazionali ci terrebbero fermi per ore. Dio è misericordioso, siamo fiduciosi in Lui.*
*Dove dovrei andarmene? Questa è la mia vita, tu saresti pronto a rinunciare alla tua vita? Dovessi anche morire qui, non me ne andrò*”
Altre lingue che hanno pronunciato questi termini appertengono ai *soldati*, anche se faccio fatica a comprimerli tutti in un unica categoria, quindi li dividerò almeno in due casi:
a) Il soldato furioso: “*Ti dico qualcosa: se entro cinque minuti non vi allontanate da questa valle vi faccio arrestare. Non mi interessa stare ad ascoltarti, tu sei venuto qui solo per creare problemi. Si sta tanto male in Italia eh? Ti annoi così tanto che sei dovuto venire a combattere la tua noia qui in Israele? Tornatene a casa tua, qua non è un posto per giocare. Certo che è facile per tutti voi “uomini e donne di pace” venire qui e dire che siamo tutti dei criminali, che dovremmo essere distrutti. Ma io vengo forse a Roma o a Milano per dirti che non puoi vivere a casa tua? Siamo l’esercito più civile del mondo, l’unico che prima di bombardare una città lancia volantini per avvisare la popolazione locale di abbandonare l’area per tempo. Perchè non andate in Siria?* *Voi sapete solo odiarci, non capisco perchè non ci sia modo di mandarvi via*”.
b) Il soldato in ascolto: “*Ti dico qualcosa. Davvero non capisco perché voi siate qui: Israele è la nazione più civile del Medio Oriente. Siamo circondati da nazioni arabe che vorrebbero distruggerci, lo puoi capire questo? Lo ammetti almeno? Il popolo ebraico è stato perseguitato per millenni, abbiamo vagato senza tregua da un continente all’altro e ovunque abbiamo trovato solo popolazioni ostili, che ci hanno odiato, disprezzato, reso la nostra vita un inferno. Oggi finalmente abbiamo uno Stato vero, uno Stato nostro, con una nostra economia, una nostra scuola e un nostro esercito, per impedire che qualcuno voglia sterminare gli ebrei come hanno provato a fare in Germania nella Seconda Guerra Mondiale. Ascolta: tu pensi che io mi diverta? A stare qui con un fucile in spalla a perquisire dei pastori palestinesi con le loro famiglie? Lo so che queste sono brave persone, ma non tutti i palestinesi sono così, non tutti gli arabi sono così. Io vengo da un piccolo villaggio della Galilea, a nord di Israele, ho perso un amico per colpa dei missili degli Hezbollah nel 2006, pensi che io mi diverta? Pensi che sia facile per un diciottenne lasciare tutto dopo il liceo e arruolarsi nell’ esercito? Tutto è difficile, ma non ho scelta*”.
Una terza categoria sono i *coloni israeliani*, nei rari momenti in cui riusciamo ad instaurare delle comunicazioni con loro: “*Ti dico qualcosa. Voi italiani vi state comportando come i Nazisti, anzi siete esattamente la stessa cosa, anche voi volete la nostra morte, così come prima di voi la voleva Hitler con Mussolini. I miei nonni sono stati in campo di concentramento prima di emigrare in Israele. Nel Grande Israele della Bibbia, la nostra terra promessa del latte e del miele.*
*Questa terra ci è stata donata da Dio nella Bibbia, è scritto nella Torah. Queste colline sono appartenute al popolo ebraico per millenni prima che arrivassero gli arabi per rubarcele. Su questo lembo di terra hanno vissuto i nostri patriarchi: Abramo, Isacco e Giacobbe. Noi stiamo compiendo la volontà di Dio reimpossessandoci di ciò che ci spetta per diritto religioso. Cacceremo tutti gli arabi da qui, prima o poi. Siamo soli in questa battaglia, tutta la comunità internazionale ci disprezza e manda voi come sicari per eliminarci, Ma non abbiamo paura*”
Una quarta categoria sono le persone che hanno pagato sulla loro pelle questo conflitto, questa occupazione. Sono alcune delle *famiglie delle vittime* con cui siamo entrati in contatto, sia israeliane che palestinesi.
Persone che hanno deciso di mettere in comune il loro dolore per qualcosa di più grande, di più forte.
“*Ti dico qualcosa: non esiste una soluzione a tutto questo passando dalla violenza. La violenza è come un cerchio infinito che si autoalimenta. Finchè non cambieranno le nostre rispettive classi politiche la pace rimarrà lontana. Sono le persone che devono incontrarsi, è dalle persone che si costruisce la speranza di un cambiamento, non dai governi. Io credo molto nella popolazione civile da entrambi i lati, è su di loro che dobbiamo contare per farci forza vicendevolmente e forzare la fine delle ostilità. Non esiste altra strada, pagheremo tutti un prezzo molto caro se andrà avanti così, in termini economici, in termini di isolamento internazionale, in termini di perdita di ulteriori vite umane.*
*La nonviolenza è la sola via d’uscita, l’unica forza davvero in grado di spezzare questo circolo*”.
E noi in quale delle quattro categorie ci rispecchiamo di più nel corso della nostra esistenza?
A volte mi rendo conto che le viviamo tutte, una per una, anche se in modalità diverse. Eppure anche noi riusciamo a essere oppressori, anche noi siamo vittime, anche noi a volte siamo in ascolto del prossimo e altre volte gli chiudiamo la porta in faccia. Non esiste una regola precisa data dal fato, possiamo essere noi e solo noi a scegliere in che maniera orientare le nostre scelte, e di conseguenza il nostro destino.
Tutta questa umanità con cui entriamo in contatto ci parla ogni giorno, si esprime. Le parole sono la via più rapida per esprimere pensieri molto più profondi, molto più antichi, molto più radicati nel genere umano e in tutti noi.
Ogni persona con cui noi volontari della Colomba entriamo in contatto ci regala parte di sè, alcuni probabilmente anche contro la loro stessa volontà.
Ogni incontro ci cambia.
Non sta a noi giudicare la vita di un altro, il nostro ruolo è contro le ingiustizie, per un cambiamento anche del peccatore. Questo può rivelarsi una splendida avventura, uno sguardo di un attimo, che ti cambia la vita.
*Ti dico qualcosa*:
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Ora tocca a noi riempire questi puntini, con la nostra testimonianza e ricerca della coerenza quotidiana.
Ale
http://www.operazionecolomba.it/palestina-israele/1524-i-tell-you-something-ti-dico-qualcosa.html
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