Una grande rete, che da scenografia della sala piena di gente diventa segno di vicinanza e solidarietà nella lotta. A Fiesole, il 27 novembre, la Giornata Onu 2010 per i diritti del popolo palestinese organizzata da Pax Christi è stata dedicata ai pescatori di Gaza. Per questo la rete da pesca esposta sul palco è stata tagliata e consegnata ai testimoni che ci hanno fatto condividere tutta la vastità della lotta quotidiana del popolo palestinese. La voce e la riflessione di abuna Iyad e Akhtam di Daoud Nassar e Kifah Nasser, è stata accolta da centinaia di persone come eco di quel “grido di speranza” che è Kairos Palestina. Allo studio del documento dei cristiani di terra santa si alternavano i racconti da quella terra violata e insanguinata, come quello di Sr. Donatella che riportiamo per tutti i lettori che non sono…riusciti ad entrare nella gremitissima sala della Badia fiesolana
Il buio di Gaza rubato da un raggio di sole di Sr. Donatella Lessio
Sono entrata a Gaza!
Prima di quel giorno ho cercato di fare un lavoro interiore per “purificare” il motivo del mio partire per questo “Santuario della Sofferenza”. Non volevo fosse la curiosità a portarmi nella Striscia. Non volevo che questo sentimento umano e pur comprensibile prevalesse sul mio andare lì perchè non volevo “violentare” il vissuto di quella terra, il suo passato e il suo presente. Il dolore che si è alzato e si alza da Gaza non mi permetteva di avvicinarmi a lei soltanto per e con curiosità. La fame di sapere per sapere, di vedere per vedere, non mi autorizzava e non autorizza nessuno a oltrepassare il valico di Erez. Sono andata a Gaza in punta di piedi, cercando di fare mio il comando che Javhè ha dato a Mosè quando si era trovato davanti al roveto ardente: “Togliti i sandali perchè la terra che stai calpestando è terra sacra”.
Sono convinta che la sacralità dipende anche dalla sofferenza, dall’ingiustizia, dai soprusi che una persona, un popolo, una terra si trovano a vivere, perchè lì il Signore regna! E Gaza racconta la sua sacralità in ogni centimetro del suo suolo.
Partiamo da Betlemme e dopo circa un’ora e mezza ci presentiamo al primo posto di controllo. Siamo ancora in terra israeliana. Di Gaza non si vede assolutamente niente. Un grande terminal sta davanti a noi e il muro alla sua destra e sinistra. Sento il mio cuore battere forte: paura? Emozione? Rabbia? Incredulità? Sorpresa? Come una centrifuga questi sentimenti avvolgono mente e corpo e sembrano paralizzarmi. Cerco di stare calma davanti ad una soldatessa carina e sorridente che mi fa le solite domande, senza verificare realmente le mie risposte. Sorrido quando mi chiede se ho un’arma. Istintivamente, senza pensarci le mostro il crocifisso che porto al collo, quello di S. Damiano perchè sono francescana e le dico che è Lui la mia arma. Sorride e continua il suo lavoro. Guardo la croce e mi chiedo se c’era coscienza nelle parole e nel gesto che avevo appena fatto. Forse sì, forse no! Sicuramente è stato un gesto che prima di tutto ha fatto riflettere me anche su quello che andavo facendo di lì a poco.
Oltrepassiamo il secondo controllo, quello che ti “dice” che stai uscendo da uno Stato per entrare in un altro: il timbro del valico di Erez! Entriamo nel cuore del terminal, un terminal asettico, impersonale, grigio. Sono insieme ad altre tre persone e mi sento terribilmente sola. Ascolto quel sentimento che mi avvolge e automaticamente mi ritorna alla memoria una poesia di Quasimodo:
”Ognuno sta solo nel cuore della terra
trafitto da un raggio di sole.
Ed è subito sera”.
Alzo gli occhi e nemmeno un raggio di sole entra dalle pareti ermetiche del terminal. Ci avviamo e ci sono altri tornelli da passare e non sappiamo quale attraversare perchè non c’è anima viva che ce lo indichi. Li passiamo in rassegna uno ad uno e in fondo se ne vede uno con la spia verde accesa. Riconosciamo che è quello giusto. Lo oltrepassiamo con fatica perchè è piccolo. Sembra fatto apposta per non lasciar passare borse grandi. Ma non siamo ancora fuori. Camminiamo un po’ e incontriamo un palestinese che ci invita a posare le nostre borse su un carrello che noi “battezziamo” sherout di Gaza. Lui è l’addetto a trasportare i bagagli. Ci mostra una porticina e mi viene ovvio alzare lo sguardo per vedere se nello stipite c’è la scritta imparata ai tempi della scuola superiore: “Lasciate ogni speranza voi che entrate”! Penso che forse Dante questa frase l’avrebbe scritta anche qui! Forse proprio qui!
Attraversiamo la porta e davanti a noi si apre l’orizzonte, si vede Gaza! La Striscia di Gaza; molti raggi di sole la trafiggono. Il grigio lascia il posto al colore dorato della terra sabbiosa e il blu del cielo sembra non avere fine. Ma….. non la stiamo ancora calpestando quella terra. Ancora un chilometro da fare a piedi, un chilometro di un corridoio blindato da reti metalliche ci separa da Gaza, che sembra ancora distante. Le reti metalliche ci permettono di vedere sia alla nostra destra che alla nostra sinistra. Ci mostrano il lavoro “alternativo” inventato per necessità da chi è sopravvissuto alla guerra. Centinaia di giovani uomini stanno spaccando i blocchi di cemento armato di quelli che erano i muri delle fabbriche della zona industriale, zona totalmente rasa al suolo dai raids aerei. Decine di carretti trainati da muli a volte recalcitranti che, in un andirivieni per noi gioioso, portano nel luogo di triturazione i pezzettini di cemento per recuperarlo e così poter costruire altre case, ricostruire il loro futuro. Già, perchè Israele ha vietato l’entrata nella striscia del materiale necessario per la ricostruzione.
Ci fermiamo per salutare, per guardare, per riflettere, per cercare di digerire quella scena così indigesta al cuore.
Aspettiamo il pulmino che dovrebbe arrivare dalla parrocchia della Sacra Famiglia. Solo quando arriva lasciamo il corridoio, che ci ha dato la sensazione di protezione perchè presi un po’ dalla paura di dover attraversare il checkpoint sorvegliato da Hamas. Fin dall’inizio mi accorgo di questo loro potere. Dopo alcuni metri ci dobbiamo fermare per il controllo palestinese. Entriamo dentro un prefabbricato; l’addetto ai controlli mi chiede in arabo se è la prima volta che entravo a Gaza. Rispondo in inglese di sì e neanche lo so se mi ha capito, ma ha ben compreso il mio cuore che ha iniziato a battere forte. La prima volta a Gaza! E come il ritornello di un salmo, queste parole rimbombano dentro di me portandosi dietro tutte le emozioni e i sentimenti propri della “prima volta”! Scendo in profondità dentro questa consapevolezza. Sono a Gaza!
La responsabilità di essere in quel luogo mi avvolge e la sensazione di sacralità mi accompagnerà per tutto il mio permanere a Gaza.
L’OK dell’addetto alla sicurezza ci permette di salire sul pulmino e partire ed entrare, in punta di piedi, nel cuore di quella terra violentata.
Entrare dentro la vita, dentro il quotidiano, toccare con mano, con gli occhi e il cuore la sofferenza della gente che incontriamo, dei posti che visitiamo. Se sei a Gaza non puoi stare sulla soglia, non c’è posto per chi arriva solo per mettersi dietro la porta cercando di origliare frammenti di vita. No! Gaza ti violenta, ti costringe ad entrare e a sporcarti della sua realtà. Decido di non fare nessuna resistenza. Decido di entrare, di entrarci tutta senza paura. Voglio lasciarmi avvolgere dalla vita, dai “raggi di sole” presenti in questa striscia.
Entriamo nella Parrocchia della Sacra Famiglia e l’accoglienza del parroco e delle suore del Verbo Incarnato ci disarmano; la semplicità delle piccole sorelle di Charles de Foucault ci sorprendono; la bellezza delle rovine del monastero di San Ilarione ci affascinano. Entriamo anche nel porto di Gaza. Centinaia di piccole imbarcazioni sembrano farci festa e ci consegnano un respiro di felicità che è immediatamente smorzato alla vista delle navi israeliane che pattugliano le acque all’orizzonte e che sembrano essere il muro nel e del mediterraneo. È pomeriggio inoltrato e a poche decine di metri dalla riva i pescatori immersi nell’acqua o dentro la loro barca, tentano di ripetere l’esperienza fatta da Pietro, un pomeriggio di molti anni fa, quando si è trovato con le reti piene di pesci. La consapevolezza che la pesca miracolosa non si ripeterà, ci costringe ad innalzare il grido a quel Signore che ha permesso ai “153 grossi pesci” di entrare nella rete del primo vescovo di Roma.
Lasciamo alle nostre spalle il mare e ci prepariamo ad arrivare a Rafat, l’ultimo villaggio della striscia al confine con l’Egitto. Li’ ci sono i famosi tunnel. Ci fermiamo a visitarne uno e mi sembra di entrare dentro un accampamento disorganizzato. Tantissime tende scomposte, nascondono le entrate dei tunnel che permettono il passaggio delle merci dall’Egitto a Gaza. Merci che non possono entrare per le vie normali. Un lavorio frenetico degli addetti ai lavori ci costringe a spostarci da una parte all’altra per non intralciare il loro lavoro. Non ho la forza di chiedere niente, guardo, fotografo, medito e mi sento “cattiva”, piccola, a disagio.
Dobbiamo andarcene perchè il rimanere lì potrebbe destare sospetto.
Nella via del ritorno, a distanza di sicurezza, vediamo il passaggio che permette l’entrata nella terra d’Egitto. Entrata che è solo per pochi!
Arriviamo in parrocchia e chiediamo al parroco di poter visitare alcune famiglie di cristiani. La nostra visita vuole essere anche una visita di solidarietà ai nostri fratelli. Ci accolgono con grande gioia. L’ascolto è intenso, partecipe. Una valanga di esperienze, situazioni faticose e dolorose ci viene consegnata, vomitata addosso. Mi sento disarmata, impotente. Raccogliamo una sofferenza che ci schiaccia ma non vogliamo lasciare che quel giogo schiacci ancora di più chi ce la racconta. Si fa buio e …… il rumore di generatori ci racconta che la corrente elettrica è stata tolta. Ogni pomeriggio è sempre così e la notte scende su Gaza. Chi è fortunato ad avere il generatore ha la possibilità di vivere la notte come tanti abitanti di questa terra. Chi non lo è si arrangia come può.
Dopo una cena festosa con la comunità dei padri e delle suore vado a letto e non riesco a dormire. Non è il cambio di materasso a togliermi il sonno. Non riesco a dimenticare le scene che ho visto. Ciò che disturba il mio sonno è lo spessore della sofferenza che si vive a Gaza.
Al mattino ci alziamo presto per celebrare l’Eucaristia insieme a tutte le suore che vivono ed operano a Gaza. Il Signore si fa carne ancora una volta. Vivo il Natale!
Dopo colazione visita alle scuole del Patriarcato e delle suore del Rosario. Il giro in pulmino ci costringe a passare nei luoghi dove ci sono stati i bombardamenti mirati. Non possiamo “passare oltre”: ci fermiamo a guardare le macerie di edifici sventrati, e scorgiamo che i segni di resistenza pacifica (riciclo dei muri di cemento) dicono che la voglia di continuare è più forte della distruzione.
Incontriamo tanti bambini, ragazzi, giovani che mostrano tutta la loro vivacità e la voglia di imparare.
Non abbiamo tanto tempo per restare con loro perchè, subito dopo pranzo, dobbiamo partire di corsa per ritornare a casa, a Betlemme. Il valico lo chiudono alle 4 e prima bisogna esplicare ancora tutti i controlli, molto più serrati di quelli dell’entrata. Controlli che nemmeno al Ben Gurion vengono fatti, come il body scanner che, girandoti attorno al corpo, mostra che non sei pericolosa dopo essere stata a Gaza. Mi chiedo se gli addetti alla sicurezza, nel monitor da loro ben studiato, vedono anche i pensieri che sono scritti in maniera indelebile nella mia mente. Per un momento sogno che questo macchinario sofisticato lo faccia, ma poi mi dico che se anche fosse così, non avrebbero gli occhi per leggerli e dare loro il vero nome.
Lasciamo il terminal. Lasciamo il valico di Erez. Il sole sta tramontando e un raggio trafigge la striscia di Gaza, rubandole il buio della sua notte.
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