REDAZIONE 15 OTTOBRE 2013
Centro di detenzione di Saharonim
di Max Blumenthal – 14 ottobre 2013
Un viaggio attraverso il deserto del Negev porta al cuore dell’incubo nazionale di Israele
Dal podio dell’Assemblea Generale dell’ONU, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha mischiato senza soluzione di continuità spaventosi dettagli sulle malefatte iraniane con immagini di ebrei inermi “randellati” e “lasciati per morti” dagli antisemiti nell’Europa del diciannovesimo secolo. Mirata alle mosse statunitensi e iraniane in direzione della diplomazia e a un pubblico statunitense stanco di guerre, la cupa tirata di Netanyahu ha rischiato di farlo apparire come una figura disperata e sminuita. Anche se è stata accolta freddamente negli USA, alienando persino alcuni dei suoi più fedeli alleati filoisraeliani, la sua geremiade è servita a un proposito più ampio, deviando l’attenzione dalle politiche del suo paese nei confronti del gruppo che egli ha scarsamente citato: i palestinesi.
Nel novembre del 1989, quando era sottosegretario nella coalizione di governo a guida Likud del primo ministro Yitzhak Shamir, un giovane Netanyahu all’uditorio dell’università Bar Ilan: “Israele avrebbe dovuto approfittare della repressione delle dimostrazioni [di Piazza Tienanmen in Cina], quando l’attenzione del mondo era concentrata su ciò che stava accadendo in quel paese, per attuare espulsioni di massa degli arabi dei Territori. Comunque, con mio rammarico, quella politica che io proponevo, e che continuo a proporre, fosse attuata non ha ottenuto sostegno.”
Oggi massimo dirigente del paese, Netanyahu ha aggiornato la sua strategia della cortina fumogena. Mentre il primo ministro strepitava contro l’Iran a New York e in un incontro con il presidente Obama nello Studio Ovale, il suo governo stava preparandosi ad attuare il Piano Prawer, un progetto di espulsione di 40.000 beduini indigeni, cittadini di Israele, dalle loro comunità ancestrali nel deserto del Negev che prometteva di “concentrarli” in distretti di tipo riserva amministrati dallo stato. Opera del capo della pianificazione politica di Netanyahu, Ehud Prawer, e approvato dalla maggioranza dei membri dei partiti politici tradizionali israeliani della Knesset, il Piano Prawer è solo uno degli elementi del programma emergente del governo per dominare ogni spazio e le vite di tutti tra il fiume (il Giordano) e il mare (il Mediterraneo).
Espulsioni nel deserto
Il 9 settembre ho visitato Umm al-Hiran, un villaggio che lo stato d’Israele ha in programma di cancellare dalle mappe. Situati nella parte settentrionale del deserto del Negev, ben oltre la Linea Verde (le linee dell’armistizio del 1959 considerate il punto di partenza di qualsiasi negoziato israelo-palestinese) e all’interno della parte di Israele che sarà legittimata nell’ambito di una soluzione a due stati mediata dagli Stati Uniti, i residenti di Umm al-Hiran si stanno mobilitando per opporsi alla rimozione forzata.
Nel soggiorno di una casa di blocchi di cemento, polverosa ma impeccabilmente ordinata, nella periferia del villaggio, Hajj al-Ahmed, un anziano sceicco, ha descritto a me e a un gruppo di colleghi del sito web Mondoweiss l’esperienza degli 80.000 beduini che vivono in quelli che sono classificati come villaggi “non riconosciuti”. Risultato di continui espropri, molte di queste comunità sono circondate da discariche di rifiuti petrolchimici e sono state trasformate in ammassi cancerogeni, mentre le campagne statali di distruzione dei raccolti dall’aria e di sradicamento del bestiame hanno decimato i loro mezzi di sussistenza.
Anche se i residenti come al-Ahmed hanno la cittadinanza israeliana, non sono in grado di avvalersi dei servizi pubblici che ricevono gli ebrei delle comunità vicine. Le strade verso i villaggi non riconosciuti, come Umm al-Hiran, sono affiancate da cavi dell’elettricità, ma ai beduini è vietato collegarsi alla rete pubblica. Le loro case e moschee sono state classificate come costruzioni “illegali” e sono regolarmente contrassegnate per essere demolite. E oggi la loro stessa presenza nella terra che appartiene loro è stata messa a rischio.
In base al Piano Prawer, la gente di Umm al-Hiran sarà tra i 40.000 beduini trasferiti a forza nelle cittadine in stile riserva indiana costruite dal governo israeliano. In quanto gruppo in crescita più rapida tra i cittadini palestinesi di Israele, i beduini sono stati classificati come una minaccia esistenziale per la maggioranza ebrea di Israele. “Non è nell’interesse di Israele avere un numero maggiore di palestinesi nel Negev”, ha affermato Shai Hermesh, un ex membro della Knesset e direttore del tentativo governativo di organizzare una “maggioranza sionista” nel deserto meridionale.
Secondo il sito web del Movimento Or, un’organizzazione collegata al governo che sovrintende agli insediamenti ebrei nel Negev, i residenti dei villaggi non riconosciuti saranno trasferiti in cittadine costruite “per concentrare la popolazione beduina”. A loro volta piccole comunità di soli ebrei saranno costruite su quel che resterà delle comunità beduine cacciate. Saranno loro garantiti notevoli benefici dal governo israeliano e generosi finanziamenti da donatori privati filo-israeliani come il miliardario erede della fortuna dei cosmetici Ron Lauder. “Gli Stati Uniti hanno avuto il loro Destino Manifesto all’Ovest”, ha dichiarato Lauder. “Per Israele quella terra è il Negev”.
Quando ho incontrato al-Ahmed egli ha descritto un gruppo di 150 estranei che era apparso improvvisamente il giorno precedente nella periferia del suo villaggio. Da una collina, ha detto, avevano esaminato la terra e discusso quali lotti avrebbe ricevuto ciascuno di loro dopo il completamento del Piano Prawer. Al-Ahmed li ha chiamati “gli ebrei dei boschi”.
A diverse centinaia di metri a est di Umm al-Hiran c’è la foresta di Yattir, un vasto boschetto piantato nel cuore del deserto nel 1964 dal paragovernativo Fondo Nazionale Ebraico (JNF). Il direttore del JNF dell’epoca, Yosef Weitz, aveva diretto il Comitato governativo di Trasferimento che aveva orchestrato le fasi finali della rimozione dei palestinesi nel 1948. Per Weitz, piantare foreste serviva a un doppio scopo strategico: quelli come Yattir, vicini alla Linea Verde, dovevano fare da cuscinetto demografico tra gli ebrei e gli arabi, mentre quelli piantati sopra i villaggi palestinesi distrutti, come Yalu, Beit Nuba e Imwas, avrebbero impedito il ritorno degli abitanti espulsi. Come scrisse nel 1949, una volta che la maggioranza ebrea di Israele fosse stata stabilita mediante espulsioni di massa, “le terre abbandonate non torneranno mai ai loro proprietari (arabi palestinesi) assenti”.
Mentre nel deserto scendeva il buio mi sono recato con i miei colleghi nei boschi di pini di Yattir. In una piccola auto abbiamo percorso le strade non illuminate fino a raggiungere un cancello irto di filo spinato. Si trattava del villaggio in stile insediamento di Hiran, “gli ebrei dei boschi”, come li aveva descritti al-Ahmed. Abbiamo chiamato nella notte fino a quando il cancello non è stato aperto. Poi abbiamo parcheggiato nel mezzo di un gruppo di roulotte. Come uno shtetlnella Zona di Residenza, il caparbio territorio della Russia imperiale riservato alla residenza degli ebrei, il luogo trasudava un senso di sospetto e di assedio.
Un barbuto religioso nazionalista è uscito da una sinagoga dalle pareti di alluminio e ci ha incontrato presso un gruppo di panche da picnic. Il suo nome era Af-Shalom ed era sulla trentina. Ci ha detto che non gli era permesso di parlare prima che arrivasse un rappresentante del Movimento Or. Dopo alcuni minuti sgradevoli e mezza sigaretta, tuttavia, ha cominciato a discorrere. Mandava, ci ha detto, i figli a scuola oltre la Linea Verde, nell’insediamento di Susiya, a solo otto minuti di distanza lungo la via di accesso riservata ai soli ebrei. Ha poi aggiunto che i beduini erano “illegali” che occupavano terra assegnata da Dio e che avrebbero continuato a impossessarsene se non fossero stati cacciati con la forza. Proprio mentre Af-Shalom stava prendendo confidenza, Moshe, un brusco rappresentante del Movimento Or che si è rifiutato di dire il suo cognome, è arrivato per scortarci fuori senza commenti.
“Il più grande centro di detenzione del mondo”
A soli pochi chilometri da Umm al-Hiran, nel deserto meridionale del Negev ed entro la Linea Verde, lo stato d’Israele ha avviato un altro ambizioso progetto per “concentrare” una popolazione indesiderata. E’ la struttura di detenzione di Saharonim, una vasta matrice di torri di guardia, muri in cemento resistenti agli esplosivi, filo spinato a lame e telecamere di sorveglianza che oggi comprende quello che l’Independent britannico ha descritto come “il più grande centro di detenzione del mondo”.
Edificato in origine come un carcere per i palestinesi nel corso della Prima Intifada, Saharonim è stato ampliato per contenere 8.000 africani che erano fuggiti da genocidi e persecuzioni. Attualmente vi risiedono almeno 1.800 profughi africani, comprese donne e bambini, che vivono in quello che il gruppo israeliano di architettura Bikrom ha definito “un enorme campo di concentramento con condizioni dure”.
Come i beduini dei villaggi non riconosciuti del Negev, i 60.000 migranti e richiedenti asilo africani che vivono in Israele sono stati identificati come una minaccia demografica che deve essere purgata dal corpo dello stato ebraico. In una riunione con i ministri del suo gabinetto, nel maggio del 2012, Netanyahu ha avvertito che il loro numero potrebbe moltiplicarsi di dieci volte, “e provocare la negazione dello stato d’Israele come stato ebraico e democratico”. Era imperativo “rimuovere fisicamente gli infiltrati”, ha dichiarato il primo ministro. “Dobbiamo operare un giro di vite e infliggere punizioni più dure”.
In un battibaleno la Knesset ha modificato la legge sulla Prevenzione delle Infiltrazioni, approvata nel 1954 per impedire ai profughi palestinesi di riunirsi mai con le loro famiglie e le proprietà che erano stati costretti a lasciarsi dietro in Israele. In base alla nuova legge, gli africani non ebrei possono essere arrestati e trattenuti senza processo fino a tre anni. (La Corte Suprema di Israele ha annullato la modifica, ma il governo non fatto nulla per applicare la sentenza e può non farlo). La proposta di legge ha stanziato fondi per la costruzione di Saharonim e di un grande muro lungo il confine israelo-egiziano. Arnon Sofer, vecchio consigliere di Netanyahu, ha sollecitato anche la costruzione di “mura marittime” per proteggersi da futuri “profughi del cambiamento climatico”.
“Non apparteniamo a questa regione”, ha spiegato Sofer.
In quella singola frase egli ha distillato la logica del sistema israeliano di etnocrazia. Il mantenimento dello stato ebraico richiede la realizzazione di una maggioranza demografica di ebrei non indigeni e la loro diffusione nella Palestina storica attraverso metodi di insediamento coloniale. Pianificatori statali come Sofer si riferiscono al processo come a “giudeizzazione”. Poiché i palestinesi indigeni e i migranti stranieri non sono ebrei, lo stato d’Israele ha definito legalmente la maggior parte di loro come “infiltrati”, ordinando la loro rimozione e reinsediamento permanente in varie zone di esclusione: dai campi profughi nel mondo arabo a ghetti murati nella West Bank, alla Striscia di Gaza, a riserva beduine costruite dallo stato e al vasto campo desertico di Saharonim.
Fintanto che lo stato d’Israele sarà fermo nei suoi imperativi demografici, la maggioranza non ebrea deve essere “concentrata” per fare spazio a insediamenti e sviluppi economici esclusivamente ebrei. Non si tratta certo di un sistema particolarmente umano, ma è un sistema che necessariamente appoggiano tutti nell’ambito dell’opinione sionista, dalla destra Kahanista alla sinistra di J Street. In effetti, se esiste qualche disaccordo sostanziale tra i due schieramenti apparentemente divergenti, è sullo stile della retorica che impiegano a difesa dell’etnocrazia di Israele. Come ha scritto l’ideologo revisionista sionista Ze’ev Jabotinsky nel suo famoso saggio del 1923 “Iron Wall” [Muro di ferro] delineando la logica quella che sarebbe diventata la strategia israeliana di deterrenza, “non ci sono differenze significative tra i nostro ‘militaristi’ e i nostri ‘vegetariani’”.
Durante l’era di Oslo, il periodo della speranza prevalente nell’Israele della metà degli anni ’90, è stato il partito laburista “colomba” di Yitzhak Rabin e Ehud Barak che ha cominciato a circondare la Striscia di Gaza con barricate e recinti di filo elettrificato mentre disegnava piani per un muro di separazione tra la West Bank e “Israele in senso stretto”. (Quel progetto è stato attuato nel corso del premierato di Ariel Sharon).
“Noi qui, loro là” è stato lo slogan della campagna di Barak per la rielezione nel 1999, e della campagna di Peace Now [Pace adesso] all’epoca a sostegno della soluzione a due stati. Attraverso il compimento delle politiche separazioniste del Partito Laburista, i palestinesi di Gaza e della West Bank sono gradualmente scomparsi dal prosperoso centro costiero israeliano, consolidando città come Tel Aviv a mecche del cosmopolitismo europeo, “una villa nella giungla”, come ha detto Barak.
Con la transizione politica post-Oslo che ha frantumato il “campo pacifista” israeliano, i partiti di destra in ascesa hanno deciso di completare il lavoro avviato dal partito laburista. Arrivati al 2009, quando Israele ha eletto il governo più aggressivo della sua storia, il paese era ancora pieno di “infiltrati”, i più visibili tra i quali erano i migranti africani, privati dei permessi di lavoro e sempre più costretti a dormire nei parchi di Tel Aviv sud. Secondo un articolo del giornale Haaretz a proposito di un nuovissimo sondaggio dell’Israel Democracy Institute sugli orientamenti israeliani “gli arabi non sono più in cima alla lista dei vicini che gli ebrei israeliani considerano indesiderabili, sostituiti ora dai lavoratori stranieri. Quasi il 57% degli ebrei intervistati ha affermato che avere per vicini dei lavoratori stranieri li disturberebbe.”
Non contenuti dalle pretese di tolleranza del centrosinistra, i membri di destra del governo hanno scatenato una sagra senza precedenti di incitamento al razzismo. Il ministro dell’interno Eli Yishai del Partito Shas (sostituito dopo le elezioni del 2013), ad esempio, ha falsamente descritto gli africani richiedenti asilo come affetti da “una serie di malattie” e ha lamentato che loro “pensano che il paese non appartenga a noi, all’uomo bianco”.
“Fino a quando non potrò deportarli”, ha promesso, “li rinchiuderò, in modo di rendere miserabili le loro vite”.
A una manifestazione anti-africana del maggio 2012 a Tel Aviv, su un palco davanti a più di mille dimostranti esagitati, il membro della Knesset ed ex portavoce dell’esercito israeliano Miri Regev ha proclamato: “I sudanesi sono un cancro nel nostro organismo!” Incitati a una frenesia violenta, centinaia di manifestanti si sono scatenati a Tel Aviv sud, spaccando del vetrine delle aziende africane e attaccando qualsiasi migrante riuscissero a trovare. “Il popolo vuole che gli africani siano bruciati!” hanno gridato.
Come durante altri momenti bui della storia, le urla eliminazioniste esplose da una folla urbana contro una classe di emarginati hanno segnalato l’arrivo di una campagna di purificazione etnica. E dopo la notte delle vetrine infrante le celle di Saharonim hanno continuato a riempirsi.
Andando a sud
Proprio come gli utenti dei media occidentali troveranno difficile procurarsi dettagli del Piano Prawer e del campo di Saharonim, i visitatori casuali del deserto del Negev troveranno scarse prove delle imprese più rivoltanti dello stato. Cartelli autostradali, invece, li dirigeranno a un piccolo museo a Sde Boker, l’umile kibbutz che il primo primo ministro di Israele, David Ben Gurion, considerava la sua casa.
Nelle sue memorie Ben Gurion fantasticava di evacuare Tel Aviv e di insediare cinque milioni di ebrei in piccoli avamposti in tutto il Negev, dove si sarebbero svezzati dal cosmopolitismo privo di radici ereditato dalla vita nella diaspora. Proprio come era indispettito dall’atteggiamento mondano degli ebrei di Tel Aviv e di New York, Ben Gurion era disgustato dalla vista del deserto vuoto, descrivendolo come uno “spreco criminale” e un “territorio occupato”. In effetti, dal suo punto di vista, gli occupanti erano gli arabi. Già nel 1937 aveva piano per la loro cacciata, scrivendo in una lettera a suo figlio Amos: “Dobbiamo espellere gli arabi e impossessarci dei loro luoghi”.
La casa di Ben Gurion è una struttura a un solo piano dall’aspetto austero, ammobiliata modestamente e scarsamente illuminata. Le spartane camere da letto separate in cui dormivano lui e sua moglie sono conservate in modo impeccabile, come se in qualsiasi momento potessero tornare a casa. Vicino c’è un piccolo museo, piuttosto sciatto, che commemora la sua eredità in una serie di reperti che non sembrano essere stati aggiornati da almeno un decennio.
Il luogo è un residuo fatiscente di un’era passata che il paese ha lasciato nella polvere. Il pubblico illuminato del centro costiero di Israele ha voltato le spalle al deserto, preferendo invece rivolgere lo sguardo alle capitali urbane dell’Europa, mentre il resto del paese trae crescente energia dal fervore religioso nazionalista che promana dalle colline della West Bank occupata. Nel Negev forse tutto quello che perdura dell’eredità di Ben Gurion è la continua espulsione dei beduini.
Su un sentiero ghiaioso che conduce verso la sua casa una serie di placche evidenzia briciole di saggezza di quel padre fondatore di Israele. Una citazione spicca rispetto alle altre. Scolpita su una piccola lastra di granito dice: “Lo Stato d’Israele, per esistere, deve andare a sud”.
Max Blumenthal è un giornalista premiato il cui lavoro è apparso sul New York Times, Los Angeles Times, Daily Beast, Nation, Huffington Post, Independent Film Channel, Salon.com, Al Jazeera English e altre pubblicazioni. E’ autore del best-seller ‘Repubblican Gomorrah’ [Gomorra Repubblicana]. Il suo nuovo libro, appena pubblicato, è ‘Goliath: Life and Loathing in Greater Israel’ [Golia: vita e odio nel Grande Israele] (Nation Books).
Questo articolo è apparso in origine su TomDispatch.com, un blog del Nation Institute, che offre un flusso costante di fondi, notizie e opinioni alternative a cura di Tom Engelhardt, a lungo direttore editoriale e cofondatore di The American Empire Project, autore di The End of Victory Culture[La fine della cultura della vittoria] e di un romanzo, The Last Days of Publishing[Gli ultimi giorni di pubblicazione]. Il suo libro più recente è The American Way of War: How Bush’s Wars Became Obama’s[La via statunitense alla guerra: come le guerre di Bush sono diventate di Obama](Haymarket Books).
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: http://www.zcommunications.org/the-desert-of-israeli-democracy-by-max-blumenthal.html
Originale: TomDispatch.com
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2013 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
http://znetitaly.altervista.org/art/12717
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