Il muro del pianto

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Sono le 4.30 del mattino a Betlemme. Siamo in fila con altri 3100 palestinesi che cercano di passare, come ogni mattina, il check point che gli consentirà di raggiungere il luogo di lavoro a Gerusalemme. Condivideremo con loro l’umiliazione di una lunga attesa per passare da una parte all’altra della loro stessa terra.
Chi ha fissato quel confine?
Chi vuole dividere la terra deve prima separare l’uomo dalla terra che abita, togliere il diritto ed elevare l’arbitrio e l’abuso a regola alla quale abituarsi a tal punto da dimenticarne il radicale significato di espropriazione e discriminazione che essa contiene.

Hanno messo cancelli che diventano gabbie, hanno stabilito orari di apertura. E neppure li rispettano.
Praticano controlli variamente vessatori a giudizio del soldato di turno, generalmente un giovane diciottenne, maschio o femmina, il quale costringe un uomo che gli potrebbe essere padre, e che solitamente è padre di molti figli, a togliersi la cintura dei pantaloni, a levarsi le scarpe, ad esibire un documento schiacciandolo contro il vetro antiproiettile mentre con l’altra mano si fa rilevare le impronte digitali.
Il soldato che gli sta davanti lo considera un estraneo, un nemico disumanizzato che non ha interesse a conoscerlo e neppure lo guarda negli occhi. Sa solo che è il nemico.
Abbiamo incontrato Youssef, padre di sette figli, muratore che teme di non riuscire a passare questa mattina, perché c’è una ressa incredibile. Viene da Hebron, ed ogni giorno il suo viaggio inizia alle tre e da là ci vuole un’ora per raggiungere il check point di Betlemme. Si guarda attorno sconsolato muovendo ansiosamente il suo sacchetto nero di plastica che contiene il pasto della giornata.
Da un’altoparlante invisibile una voce grida in ebraico di stare ordinatamente in fila in modo che i “prigionieri in permesso di uscita” sfilino come si deve.
Basterebbe “restare umani” per capire come tutto questo sia un artificio diabolico che corrompe l’anima di chi lo ha architettato.
Ci vogliono quasi tre ore per percorrere i centocinquantaquattro passi che qualcuno di noi ha calcolato dividere la gabbia dell’attesa dal punto di controllo. L’attesa si prolunga: qualcuno ha fermato il meccanismo, il tornello è bloccato: il soldato di turno fa colazione.
Non abbiamo visto un solo gesto di impazienza da parte dei palestinesi in attesa: “vorresti farmi gridare, ma non ci riuscirai”. Tremila persone sono passate e nessuno ha gridato.

Team di Tutti a Raccolta 2011

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